lunedì 28 dicembre 2009

Meccanica quantistica e coscienza



(Dato l'interesse che ha suscitato il post sulla meccanica quantistica, Alessandra, su specifica richiesta, pubblica volentieri un approfondimento)

Volevo chiederle se mi consigliava delle letture sulla meccanica quantistica:
avevo cominciato a leggere "Il programma dell'universo" di Seth Lloyd, solo che è più collegato alla computazione che alla fisica quantistica in sé.
Altra opera che sto leggendo è Q.E.D di Richard Feynman.
Vorrei leggere qualcosa che parli solo di fisica quantistica, per
avere un quadro un po’ più chiaro.
Inoltre la mia idea era quella di collegare la tesina con biologia
parlando di come il cervello risponda alle leggi della fisica quantistica (Penrose: "La mente dell'imperatore): è troppo azzardata?
Mille Grazie.

Paolo


Caro Paolo,
Per quanto riguarda qualche approfondimento di meccanica quantistica, in Italiano, posso consigliarti dei testi universitari ON LINE:
1) Sigfrido Boffi Da Laplace a Heisenberg (Università di Pavia):
http://www.pv.infn.it/~boffi/libro.html
2) Furio Ercolessi e Stefano de Gironcoli appunti di meccanica quantistica (Università di Udine e SISSA):
http://www.fisica.uniud.it/~ercolessi/MQ/mq/
3) E. Bodo Applicazioni di meccanica quantistica (Università di Roma Tre)
http://w3.uniroma1.it/bodo/dispense/appl.pdf
4) I fondamenti della meccanica quantistica (Università di Firenze):
http://theory.fi.infn.it/ademollo/Fondamenti.pdf
5) Appunti di Meccanica Quantistica non relativistica
http://dl.dropbox.com/u/714247/quantistica.pdf
Per quanto riguarda invece la teoria di Roger Penrose, già confutata da Max Tegmark, che in uno scritto pubblicato sulla rivista Physical Review E ha calcolato che la scala di tempo di attivazione ed eccitazione di un neurone nei microtubuli è più lento del tempo di decoerenza per un fattore di almeno 10.000.000.000; ti segnalo un articolo dell’11 Marzo 2009:
http://lescienze.espresso.repubblica.it/articolo/Vita_dura_per_la_coscienza_quantistica/1337460
Vita dura per la coscienza quantistica
Una ricerca mostra che i condensati di Fröhlich non servono per spiegare la coscienza, ma scopre al contempo che essi possono avere interessanti applicazioni in campo biochimico
La comprensione della coscienza e dei suoi fondamenti biologici e fisici è ben lontana dall'essere raggiunta: molti ritengono che le teorie classiche non siano in grado di darne conto e diversi ricercatori hanno ipotizzato che la meccanica quantistica vi abbia un ruolo centrale.
Una delle più note teorie della "mente quantistica" è quella proposta da Roger Penrose e Stuart Hamerhoff, nota come teoria della "riduzione obiettiva orchestrata" (o teoria Orch OR, da orchestred objective reduction).
La teoria ipotizza che i microtubuli cellulari possano funzionare da elementi di calcolo quantistico. All'interno dei microtubuli la coerenza di stati di sovrapposizione quantistica viene mantenuta fino al collasso della funzione d'onda. Normalmente una funzione d'onda collassa in seguito a una misurazione, ma si suppone che il collasso non avvenga finché la sovrapposizione quantistica resta fisicamente separata all'interno della geometria spaziotemporale, detta riduzione obiettiva. Quando un'area di coerenza quantistica collassa, si avrebbe un istante di coscienza.
La causa fisica dell'attività coerente nei microtubuli, secondo Penrose e Hamerhoff, potrebbero essere i "condensati di Fröhlich", che analogamente ai condensati di Bose-Einstein sono sistemi con un'unica proprietà collettiva di coerenza quantistica macroscopica. Nei condensati di Fröhlich diversi "oscillatori" in vibrazione possono raggiungere uno stato ordinato altamente condensato, vibrando in risonanza.
I condensati di Fröhlich non sono stati peraltro mai osservati sperimentalmente in modo certo, a dispetto di 40 anni di intensa ricerca. Ora, come è riferito in un articolo in via di pubblicazione sui Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS)("Weak, strong, and coherent regimes of Fröhlich condensation and their applications to terahertz medicine and quantum consciousness.", di Jeffrey R. Reimers; Laura K. McKemmish; Ross H. McKenzie; Alan E. Mark; and Noel S. Hush), ricercatori dell'Università di Sidney e dell'Università del Queensland, in Australia, hanno studiato le proprietà fondamentali dei condensati di Fröhlich nel tentativo di determinare il miglior metodo sperimentarle che potrebbe consentire di osservarli.
Lo studio ha mostrato che per formare condensati di Fröhlich coerenti sono necessarie energie e temperature molto elevate (anche di cento milioni di Kelvin), e che quindi essi non possono esistere nei sistemi biologici, almeno della forma ipotizzata dalla teoria Orch OR.
Tuttavia, i condensati di Fröhlich potrebbero avere di verse applicazioni. I ricercatori hanno infatti scoperto che i condensati "deboli" di Fröhlich possono avere effetti significativi sulle proteine e potrebbero spiegare l'azione degli enzimi in termini di eccitazione di modi vibrazionali, come Fröhlich aveva originariamente proposto.
Del resto, secondo Riccardo Calantropio, il fondatore della mia scuola di pensiero, vi sono diversi tipi di COSCIENZA che coesistono, come in un ambiente windows, in uno stesso cervello: “ La coscienza del conscio, la coscienza dell’inconscio, la coscienza collettiva di gruppi di inconsci, etc.”
Un caro saluto,
Alessandra

lunedì 21 dicembre 2009

Buon Natale



Natale è la festa dell'amore.
Ci sono degli spazi per gli oggetti e degli spazi per l’amore.
A questi ultimi, Alessandra e Alberto aggiungono un fiocco.
Buon Natale e buone feste a tutti.
Arrivederci all’11 gennaio 2010.

Rapporti difficili


Da molto tempo ormai ho una domanda che mi tormenta e, anche se non so se voi potrete darmi una risposta, vorrei esporvela...la mia gioventù è stata caratterizzata da un pessimo rapporto con mia madre.
Credo che non ci sia stato un giorno in cui non abbiamo litigato e abbiamo avuto una discussione serena. Infatti, ogni giorno, quando lei tornava a casa stressata dal lavoro, ogni occasione era buona per attaccare briga e sfociare come al solito in una discussione in cui mi rinfacciava fatti di cui io non avevo colpa, e molte volte arrivavo anche a essere malmenato senza motivo. Molti sono stati anche gli episodi in cui mi sono trovato sbattuto fuori di casa e, essendo i miei genitori separati, andavo a passare del tempo insieme a mio padre fino a quando poi mia madre, scusandosi, mi chiedeva di tornare a casa. Io ho sopportato finché ho potuto con tutte le mie forze, ma non è servito a niente perché la situazione non è cambiata e alla fine poco più di un anno fa sono riuscito a trasferirmi a vivere con mio padre e la mia custodia è passata finalmente sotto la sua potestà. Dopo il trasferimento da mio padre io non ho più sentito mia madre per molto tempo fino a quando quasi un anno dopo si è rifatta viva e allora abbiamo provato a riallacciare i rapporti solo che io non riesco.
Infatti ogni volta che la vedo o che la sento al telefono non so il perché ma cambio: la mia voce diventa rabbiosa e inizio a sentirmi strano dentro, sento che c'è qualcosa che mi blocca dal riallacciare i rapporti con lei… La mia domanda è questa: "Cosa posso fare per evitare questo blocco? ho paura di avere talmente tanta rabbia repressa da non riuscire neanche più a ragionare a mente lucida e per questo vorrei una risposta da una persona estranea alla vicenda. Grazie.

Salve, vorrei chiedervi se poteste rispondere a questa mia domanda sul blog a due voci per 2 motivi;
1) perché io ogni giorno mi trovo ad essere criticato dalle persone che conosco per il comportamento che sto tenendo con mia madre, solo che non riesco proprio a ignorare questo mio blocco e quindi mi sento male;
2) perché se mai qualcuno si trovasse nella mia stessa situazione, almeno leggendo la risposta anche lui saprebbe come fare o almeno a capire perché gli capita;
Alessandro


Caro Alessandro,
penso di comprendere il tuo travaglio interiore. Voglio partire dal POST di “Verità a Confronto”:
http://nuoveteorie.blogspot.com/2009/02/ama-il-prossimo-tuo-come-te-stesso-si.html
dal titolo: AMA IL PROSSIMO TUO COME TE STESSO. Si può comandare l’amore?
Il comandamento «Ama il prossimo come te stesso» (Lv 19,18) era già presente nel vecchio testamento. Nel precetto del Levitico, scritto in greco, però, il verbo amare REGGE ECCEZIONALMENTE IL DATIVO. Ciò avviene perché ha a che fare con l'operatività. Il comandamento, infatti, significa: AGISCI amorosamente verso il tuo prossimo. Se traduciamo, allora, il comandamento come AGISCI caritatevolmente, lo collochiamo nell’ambito del LIBERO ARBITRIO, della VOLONTA’ e quindi della RAGIONE. Con questa interpretazione non vi è l’alibi di non riuscire, a volte, ad amare il prossimo. Con la ragione puoi importi di rispettare la legge umana o divina (ovvero agire con carità) anche se i tuoi sentimenti irrazionali inconsci sono momentaneamente contrari.
Si, le emozioni e i sentimenti appartengono alla sfera inconscia e non si possono comandare con la ragione. Per cui hai perfettamente ragione quando “ti senti strano dentro”. Le emozioni sono legate ai ricordi, e per te sicuramente brutti ricordi. E’ facile per gli altri dire che hai torto. Se non si provano anni ed anni di traumatiche esperienze non si può comprendere quello che provi. Io non ti chiedo, quindi, di far finta che nulla sia successo, ma di PROVARE pian piano ad AGIRE per tentare una riconciliazione. Per far questo devi cercare di far prevalere la tua parte razionale. Devi considerare tua madre come “un’ammalata”, come anche lei “una vittima” probabilmente di una separazione che non ha mai accettato fino in fondo (indipendentemente da chi è la colpa); ovvero devi cercare di avere CARITA’ verso di lei. La CARITA’ si deve avere verso coloro che hanno bisogno (e non verso il prossimo in generale); e tua madre, anche se può avere tutte le colpe, ha bisogno di carità.
Forse, se prendi il problema sotto questo aspetto, come un atto altruistico in senso evangelico, potrai pian piano mitigare le tue emozioni negative, frutto di tanti ricordi dolorosi. Certo, non sarà facile, ed hai tutta la mia comprensione; ma sono altrettanto sicura che anche tu soffri di questo stato di cose, perché credo, da quanto mi hanno detto persone che ti conoscono tu sei una brava e buona persona, degna di ogni rispetto.
Perdona, quindi, anche coloro che ti criticano. Non sanno bene quello che dicono; ma prendi le loro parole come un atto altruistico verso di te, poiché capiscono, almeno, che anche tu soffri di questo stato di cose.
Le emozioni e i sentimenti si possono allenare con costanza e fiducia. Non ti chiedo, quindi, di cambiare atteggiamento da un giorno all’altro; ma di TENTARE e di tentare più di una volta. L’importante, nella vita, non è NON CADERE, ma avere la forza di RIALZARSI OGNI VOLTA con buona volontà. Sono convinta che ci puoi riuscire. Certo, non sarà indolore, ma ne varrà la pena.
Se, vorrai pormi altre domande, sono a tua disposizione e potrai contare su di me. Ti ringrazio per il tuo coraggio e per il tuo altruismo che hai avuto nel far pubblicare questa tua lettera, perché credo che potrà servire a tanti altri.
E, parlando in termini generali, le colpe difficilmente sono solo da una parte; per cui se qualcuno dei lettori si trovasse in condizioni similari dovrebbe fare, anche, un approfondito esame di coscienza al fine di individuare eventuali proprie mancanze nel rapporto incrinato. Anche il riconoscere i propri errori serve a risolvere meglio la propria situazione emotiva.

Un caro ed affettuoso saluto,
Alessandra


Caro Alessandro,
Ti voglio raccontare una storia, così, per iniziare. È il punto di partenza di un bel racconto di Torey L. Hayden intitolato “La foresta dei girasoli”, appena pubblicato dall’editore Corbaccio (2009).
Lesley e Megan sono due sorelle. Una ha 17 anni, l’altra è più piccola. Un giorno mentre la mamma sta lavando i piatti, voltata verso il muro, le due sorelle hanno un banale litigio. Lesley si lamenta perché, mentre mangiano il pane integrale, la sorella più piccola fa le briciole sul tavolo e poi le tira su con la punta della lingua. Allora chiede l’intervento della madre. La madre si volta, e dice qualcosa. Le due bambine, poi, nel contendersi alcuni oggetti, fanno cadere rumorosamente una sedia a terra. La mamma, allora, sospende il suo lavoro e si volta. Entrambe rimangono in silenzio.
Ecco il breve dialogo:
“Stancamente, la mamma si passò una mano tra i capelli. « Che cosa avete, voi due? Siete sorelle. Perché litigate sempre? »
Non rispondemmo. Non c'era niente da rispondere.
«Io non vi capisco », continuò la mamma.
«Perché non siete contente? Fate una bella vita. O'Malley e io vi vogliamo bene. Non vi facciamo mancare niente. Eppure non siete contente. »
«Noi siamo contente », ribatté Megan.
«Era solo per ridere, mamma », aggiunsi io.
«Non volevamo litigare sul serio. Vero, Megs? Stavamo solo scherzando. »
«Io non vi capisco. »
«Noi siamo contente, mamma », ripeté Megan, e c'era una disperazione sottile nella sua voce. «Vedi? Vedi? Sto sorridendo. Sono contenta. Io e Lesley siamo contente, sul serio. Non piangere, d'accordo? »
Ma era troppo tardi. La mamma si prese il volto tra le mani.

Mio padre li chiamava “momenti”. Quei momenti della mamma.”


Questo, per dire che a volte non è facile capire le reazioni delle persone. Vorremmo che gli adulti fossero esemplari o almeno prevedibili, ma non sempre le cose accadono secondo le nostre aspettative. Così dobbiamo cominciare a pensare che dietro le figure dei genitori, anche dietro le parole talvolta idealizzate di mamma e papà ci sono delle persone e che, dietro alle persone, ci sono delle storie. Personali e talvolta misteriose. Ed è solo la storia della vita di ciascuno che può orientarci per tentare di comprendere alcune reazioni.
A tue spese, e molto presto, hai cominciato a conoscere che non ci sono solo le sofferenze del corpo, visibili ed esibite a tutti, come la frattura di un arto, ma anche altri patimenti: mali che nel corso del tempo sono stati definiti i mali dell’anima; spesso invisibili, ma profondi e reali, sono sofferenze che emergono in certi momenti, in certi gesti, in certe parole. Ferite talvolta immense e che nessuno conosce, abissi di sofferenza che non consentono all’umore di risalire alla superficie e che, come vortici di una corrente, trascinano pensieri, inclinazioni e comportamenti verso un fondo buio da cui a volte emergono gesti scomposti, comportamenti inadeguati, parole sconvenienti. E molto spesso violenti. Come la violenza che hai subito tu. Incomprensibile perché immotivata, indecifrabile perché spropositata, ingiusta perché sempre eccessiva e sbagliata. In ogni caso enigmatica perché proveniente proprio dalla mamma. Una violenza dunque che fa doppiamente male, proprio perché all’interno di una relazione necessaria. Per molto tempo questa sofferenza è stata per te talmente grande da essere subita e probabilmente difficile da tradurre in parole. Certamente hai sofferto e, da quello che scrivi, ancora oggi, sia pure in modo diverso, questa relazione difficile ti tormenta.
Però, caro Alessandro, dalla sofferenza bisogna uscire. Se sono stati feriti i tuoi pensieri e le tue emozioni, allora dovrai prenderti cura sia dei pensieri sia delle emozioni.
E per compiere questo passaggio abbiamo bisogno della ragione.
Vorrei allora dirti alcune cose sulle emozioni che provi e sul sentiero razionale da percorrere.
Innanzitutto: Non ti sentire in colpa. Se in questo momento non riesci ancora a stabilire una relazione accettabile, questo non dipende da una tua inadeguatezza. Meno che mai da una tua inadeguatezza morale. So che sei una persona buona e corretta nell’agire. Anche tu però hai bisogno di una difesa da ciò che potrebbe ancora farti male. Quando uno ha un livido da qualche parte, basta anche una leggera pressione di un dito a scatenare un forte dolore. Uno cerca di proteggere la parte dolente. A volte possono apparire misure eccessive, ma sapendo che il dolore è forte uno preferisce proteggersi. In questo momento ti stai semplicemente difendendo da quel dito che potrebbe farti più male. Gradualmente, il tempo e una valutazione della vicenda in grado di tener conto di altri particolari ti consentiranno di accogliere una nuova prospettiva meno dolorosa nella valutazione della tua vita. Come nella storia iniziale, i “momenti” che sembrano irrazionali e non avere spiegazione, con il tempo ti riveleranno un vissuto complesso e non sempre felice anche di tua madre. Pensa a ciò che ci accade quando andiamo al cinema. A volte vediamo certi personaggi che ad una prima sensazione sono antipatici, insopportabili o hanno modi indisponenti. Ma poi, accompagnati dal racconto, riusciamo poco per volta a comprendere quali sono i problemi o i vissuti che li attraversano. E sentiamo che il nostro giudizio fortemente negativo viene mitigato dalla conoscenza della loro storia. Una maggiore conoscenza anche dei vissuti di tua madre ti aiuterà a giudicarla meno negativamente.
Il Tempo: il tempo è prospettiva. Man mano passa il tempo è come se ci si sollevasse con lo sguardo da una eccessiva vicinanza che non permette di vedere ad una posizione che permette di cogliere forme e trame. Una prospettiva che tiene conto di più elementi consente una visione d’insieme più realistica. Forse il tempo riuscirà a farti considerare in modo diverso quello che oggi, per l’estrema vicinanza, è ancora troppo scomodo e doloroso da accettare. Quando insieme a una maggiore distanza temporale aumenterà la tua conoscenza di alcuni problemi, allora riuscirai a dipanare meglio quello che oggi è complicato e oscuro.
Gli amici: chi non è stato attraversato dalla violenza e da rapporti che hanno guastato la relazione, da legami infelici e strazianti, non può capire completamente quello che ti succede. Alle emozioni ferite bisogna dare occasioni per rimarginarsi, ai pensieri tormentati il tempo calmo della riflessione e della comprensione, perché il vissuto d’angoscia necessita di una lenta fase di decompressione. Come avviene ai sub che devono risalire: vorrebbero uscire rapidamente, ma perché l’uscita non comprometta la salute hanno bisogno di una lenta risalita e di un momento di sosta per permettere all’organismo di riadattarsi alla nuova condizione. Ma anche le parole dei tuoi amici sono importanti: ci ricordano che è essenziale essere positivi e che la comprensione è più potente della rabbia.
Tua madre. Non devi pensare che la sofferenza sia stata prodotta intenzionalmente, consapevolmente. Caro Alessandro, ci sono vite che si smarriscono, dispiaceri che abbattono oltre misura, affanni che logorano, pene intime che conducono in strade a senso unico. Tutte le sofferenze, però, chiedono comprensione. Purtroppo, anche nel mondo degli adulti ci si smarrisce e, a volte, da certi labirinti si fatica ad uscire.
Tu. Abbi fiducia in te stesso e nelle tue forze. Lo so che ci vuole una grandissima robustezza per reagire e può darsi che in questo momento a te venga richiesto troppo. Ma io mi rivolgo a te, non per dirti cosa fare adesso, ma perché tu dovrai lavorare su queste riflessioni e sulle tue emozioni. Punta sulla tua capacità di essere positivo e ti accorgerai che la capacità di comprendere è un’ energia potente e sviluppa una resistenza anche al dolore. Spesso è un medicamento efficace. Anche se non ora, ma quando ti sentirai, non chiudere la porta con chi soffre. La ragione ti aiuterà a capire che certe parole appartengono ad un linguaggio malato, che certe frasi abbozzate non definiscono te, ma sono espressioni di sofferenza e manifestazioni della pena di chi le pronuncia. Un po’ come è accaduto nella pittura. Per un certo tempo si è pensato che sulla tela fossero riprodotti semplicemente diversi oggetti, poi si è cominciato a pensare che, indipendentemente da tutto ciò che viene raffigurato, quello che vediamo sulla tela altro non è che il soggetto che si rivela. Quando riuscirai a creare una distanza tra le parole deformanti pronunciate da chi soffre e la tua persona a cui non si addicono, quando riuscirai ad accettare che certe frasi invece di essere etichette “vere” o descrittive siano invece i colori con cui si esprime il dolore, forse riuscirai ad accettare anche la sofferenza di tua madre e a sciogliere un po’ di quella rabbia giusta che porti ancora dentro. A una persona che ha una gamba rotta non chiediamo di correre, a chi è lacerato dentro non poniamo obiettivi troppo alti.
Un grandissimo augurio per una buona vita e un caro saluto,
Alberto

lunedì 14 dicembre 2009

Sono Sensitiva?



Scrivendo di questa mia esperienza, potrei passare per "strana" o per "matta", però ho notato che è una cosa che mi caratterizza. Ogni tanto penso a qualcosa o a qualche persona, in un momento di silenzio, di tranquillità, e subito dopo o qualche giorno dopo, avviene o vedo quella cosa o quella persona che avevo pensato precedentemente. È una cosa strana che mi capita da diverso tempo, però cerco di dirlo a persone di cui mi fido, cioè a persone che mi credono e che non annuiscono solo per farmi contenta, mentre in realtà pensano che io sia una “pazza”.
Loredana


Cara Loredana,
Solo qualche giorno fa, e precisamente il 24 Novembre del 2009, è stato pubblicato un articolo su Rupert Sheldrake:
http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=29092

"Parlava dei poteri telepatici di cani, gatti ed uomini. E in particolare affermava che, a detta di Sheldrake, questa è un’area di ricerca quasi completamente ignorata. I ricercatori psichici e i parapsicologi l’hanno trascurata, perché hanno definito la parapsicologia come lo studio di facoltà umane straordinarie. Questo non vuol dire che gli animali non possano averle, ma nella parapsicologia e nella ricerca psichica l’attenzione è sempre stata focalizzata sull’uomo. I biologi, dal canto loro, hanno ignorato quest’area, perché esiste un tabù contro il cosiddetto paranormale. Per questo, nel mondo scientifico tutti ignorano tali fatti, anche se esiste una discreta quantità di prove a loro sostegno. E ogni volta che si parla di questo argomento, c’è qualcuno che ha una storia da raccontare in merito.
Poi Rupert Sheldrake aggiungeva: “La maggior parte delle persone aderisce in modo meramente formale a una visione del mondo meccanicistica (ovvero, trattare la natura come un fenomeno meccanico), perché essa è alla base dell’istruzione, dell’industria, dell’evoluzione e dell’economia moderne. Il modello meccanicista della realtà è quello dominante nella vita pubblica. E gli scienziati, naturalmente, lavorano al suo interno.”

Eppure, già lo stesso Sigmund Freud affermava: “E’ praticamente certo che l’occuparsi di fenomeni occulti porterà ben presto alla conferma che un certo numero di essi si verifica effettivamente; c’è tuttavia da presumere che ci vorrà molto tempo prima che si giunga ad una teoria accettabile riguardo a questi fatti nuovi.” Sigmund Freud ha esposto in modo diretto le sue convinzioni in tema di telepatia in due scritti: “Psicoanalisi e telepatia” e “Sogno e telepatia” entrambi redatti nel 1921. Trattando di un caso il Maestro scrive: “L’evento si spiega perfettamente se siamo disposti a supporre che questo sapere si è traslato da lui a lei, presunta profetessa, per vie sconosciute, e con esclusione delle modalità comunicative a noi note. La nostra conclusione dovrebbe dunque essere che esiste la trasmissione del pensiero” .
Anche Carl Gustav Jung, dopo aver conosciuto il premio nobel per la fisica Wolfgang Pauli, che conosceva il NON LOCALISMO della meccanica quantistica, teorizzò un inconscio collettivo ( ovvero un contenitore psichico universale, che contiene gli archetipi, cioè le forme o i simboli che si manifestano in tutti i popoli di tutte le culture) e la sincronicità.
Gli scienziati David Bohm e Karl Pribram teorizzarono, invece il paradigma olografico, ovvero l’olismo, che fornisce le basi teoriche delle filosofie orientali e della new age occidentale, che in base al NON LOCALISMO concatenano tutto l’universo, fornendo una visione unitaria della realtà.
Ricordo che esiste l’enciclopedia olistica ON LINE (http://www.enciclopediaolistica.com/) cofinanziata dalla Comunità Europea e redatta da diverse università italiane e da altre europee.
Segnalo inoltre che la facoltà di psicosomatica dell’Università di Torino ha un libro di testo ON LINE che tratta proprio di questi argomenti, e che è interessante consultare:
http://www.sicap.it/merciai/psicosomatica/badjob/Luca.pdf
Una delle teorie più recenti ed interessanti è quella degli scienziati russi capitanati da Pjotr Garjajev, che dice che il DNA umano funziona come una specie di "Internet biologico", ed è sotto molti aspetti superiore a quello artificiale. Queste nuove ricerche scientifiche, in Russia, direttamente o indirettamente, spiegano fenomeni quali chiaroveggenza, intuizione, guarigioni spontanee e guarigioni a distanza, autoguarigioni, tecniche di affermazione, aloni di luce attorno alle persone e molto altro:
http://www.nexusedizioni.it/apri/Notizie-dal-mondo/Ultimi-articoli/SCOPERTE-SUL-DNA-IN-RUSSIA
La teoria, invece, a cui, personalmente sono più portata a ritenere attendibile è quella della RETE DEGLI INCONSCI dello studioso Riccardo Calantropio, della cui scuola di pensiero, anch’io faccio parte. La visione di questa scuola di pensiero si distacca da metafisica, riduzionismo, relativismo ed olismo, individuando nell’evoluzione biologica attuale umana la produzione di una propria pseudo-spiritualità, data dalla possibilità degli inconsci umani di interconnettersi tra di loro, come in una rete internet; ma che a differenza della teoria russa, teorizza una memoria collettiva di tutta l’umanità, decisamente fisica, che si troverebbe distribuita in strati profondi degli inconsci dei viventi. Secondo questa teoria la telepatia non sarebbe altro che una più fortunata disposizione sinaptica di alcuni uomini, rispetto ad altri, tale che si abbia una maggiore comunicazione tra inconscio e coscienza (per cui nulla di spirituale o metafisico). Poi, per il NON LOCALISMO, l’interconnessione degli inconsci farebbe il resto, e sempre tramite gli inconsci si potrebbe accedere ai ricordi dei defunti registrati nella rete, facendoci credere di poter parlare con gli spiriti dei morti o che alcuni si possono reincarnare. La teoria presuppone poi diversi gradi di autocoscienza: quella della coscienza, quella dell’inconscio personale, e quella di gruppi di inconsci collettivi (come avviene negli insetti sociali o in stormi di uccelli). Quest’ultima qualità spiegherebbe anche le veggenze, i sogni premonitori e le profezie che si autoavverano.
Ovviamente, visto che è uno dei miei campi di studio, sono disponibile a scendere in maggiori dettagli, su richiesta.

Un caro saluto,
Alessandra


Cara Loredana,
La tua domanda richiama una questione antica che più recentemente è stata riformulata in questo modo: è possibile una corrispondenza reciproca tra stati interiori della mente ed eventi esteriori? Nel corso dell’esistenza, infatti, accadono eventi che sembrano non essere casuali. Coincidenze particolari che a volte lasciano interdetti. “Coincidenze significative”, potremmo dire. Infatti è proprio con questa locuzione “coincidenze significative” (ma guarda che coincidenza!, scherzo) che Carl Gustav Jung (1875 - 1961), il grande psichiatra e psicoanalista svizzero, denota tutta una serie di casi particolari. Jung considera con serietà la questione e per questo vi dedica ben due studi: La sincronicità (1951) e La sincronicità come principio di nessi acausali (1952). (Entrambi i saggi sono contenuti nell’ottavo volume delle opere di Jung, nell’edizione Bollati Boringhieri – il primo, più breve e più semplice, è nell’appendice del testo).
Tutto parte dall’analisi dell’applicazione del principio di causa nella spiegazione dei fenomeni. Il principio di causa, come sai, è un principio fondamentale, naturalmente, per la spiegazione scientifica. Jung, però, che aveva già studiato in precedenza il nesso di “causalità”, ha sollevato dubbi sull’applicazione senza riserve di tale principio in psicologia (ad es. nei sogni questo principio salta: da un effetto si genera immediatamente la causa e non viceversa, lo diceva già Freud). Egli pensa infatti che sia necessario dedicarsi allo studio di una serie di fenomeni che non sembrano interpretabili con le normali categorie di causa, spazio e tempo e che non sembrano essere riducibili alle categorie scientifiche classiche. Per affrontare la spiegazione di questi problemi, introduce il concetto di “coordinamento acausale”.
Così, nel 1951, Jung definisce come “fenomeni sincronistici” i fenomeni che coincidono con il contenuto psichico dell’osservatore e che accadono simultaneamente; oppure in uno spazio diverso o in un tempo diverso, un po’ come è accaduto a te. Scrive Jung questi tre casi: "1) la coincidenza di uno stato psichico dell'osservatore con un evento contemporaneo e obiettivo che corrisponde allo stato o al contenuto psichico (...) 2) la coincidenza di uno stato psichico con un evento esterno (più o meno contemporaneo) corrispondente, il quale però si svolge al di fuori della sfera di percezione dell'osservatore, e quindi distanziato nello spazio, e può essere verificato soltanto successivamente (...) 3) la coincidenza di uno stato psichico con un evento corrispondente, non ancora esistente, futuro, quindi distante nel tempo, il quale può essere verificato solo a posteriori" (1951, p. 545). Lo studioso Paolo Francesco Pieri nel Dizionario junghiano (Bollati Boringhieri, 1998) ricorda che queste diverse tipologie di eventi sarebbero “un aspetto particolare del cosiddetto ‘coordinamento acausale’ che sovrintenderebbe alla creatività, e cioè quegli ‘atti creativi’ che vengono a svolgersi attraverso le immagini, il pensiero e il linguaggio”.
Jung pensa dunque ad una corrispondenza precisa tra contenuto psichico e realtà: ovviamente l’evento esterno e quello interno devono avere lo stesso significato; e prima di poter interpretare tali fenomeni in base a nuove teorie, ovviamente si devono innanzitutto escludere sia possibili relazioni causali dirette tra gli episodi sia l’applicabilità di leggi statistiche nella loro spiegazione. Ma fatte salve queste condizioni, rimangono però da spiegare i fatti che, come disse Withehead sono spesso “irriducibili e ostinati”.
Come è possibile, infatti, che si manifesti qualcosa che così anticipatamente non può esserlo? La spiegazione di Jung è questa: esistono fenomeni che non hanno ancora ricevuto una spiegazione causale deterministica o statistica. Egli è consapevole però che la scienza non può spiegarli per due motivi di fondo.
Il primo è il fatto che la scienza utilizza come metodo di spiegazione il “principio di causa” e ciò che non manifesta una causa diretta riconoscibile non viene preso in considerazione; il secondo, è il fatto che la scienza esclude il fattore psichico nello studio della realtà. Per poter considerare i fenomeni che tu hai riportato, secondo Jung, la scienza dovrebbe “allargare” il proprio punto di osservazione e accogliere nel proprio metodo anche i due elementi sopra citati: ossia “il fattore acausale” e “il fattore psichico”.
Egli suggerisce pertanto di considerare tali fenomeni non tanto “irrazionali”, ma “extrarazionali”, ossia diversi dal paradigma della scienza condivisa.
Per spiegare questi fenomeni, egli fa riferimento al ruolo della “conoscenza inconscia”. Da una parte introduce il fattore affettività: sarebbero infatti particolari condizioni psichiche prodotte proprio attraverso l’affettività, in parte legata a qualche aspettativa, a consentire l’attivazione di queste forme di conoscenza. Ma soprattutto Jung fa riferimento all’attività di un particolare strato della psiche in cui percezioni, osservazioni e conoscenze inconsce pervengono poi alla coscienza. Ma questo era il pensiero dello psichiatra fino alla metà del secolo scorso. La ricerca scientifica contemporanea ha però fatto altri passi avanti. Se vuoi continuare i tuoi approfondimenti, pertanto ti invito a leggere le altre citazioni indicate da Alessandra nella lettera precedente.

Un caro saluto,
alberto

lunedì 7 dicembre 2009

Universi paralleli



Anni fa mi è capitato tra le mani un libro, un vecchio Urania, che mi ha regalato un appassionato di fantascienza. Si intitolava “Assurdo Universo”. Non mi sono mai piaciuti molto i racconti di fantascienza, però ho trovato in questo una visione della realtà molto particolare: la teoria degli infiniti universi. Praticamente, secondo questa teoria, la realtà non è composta da un solo universo, il nostro, ma da infiniti universi paralleli. Esiste, ad esempio, un universo totalmente identico a questo, ma nel quale io ho i capelli biondi anziché castani, oppure gli occhi azzurri o verdi. Alcuni universi sono simili al nostro, altri sono talmente diversi che l'intelletto umano non li può comprendere. Questa teoria, per quanto mi sia sembrata assolutamente assurda, mi ha dato molto su cui riflettere. Ammettendo che questa teoria sia vera, tutto ciò che in questo universo non esiste, può esistere in un altro universo; e tutto ciò che in questo universo è falso in un altro può essere vero. In pratica “tutto è possibile se si considerano tutti gli universi”. Ogni volta che ci penso mi vengono le vertigini. Se così fosse, allora tutte le nostre domande esistenziali potrebbero tradursi nelle domande: in quale universo siamo? Siamo in un universo in cui esiste un ente supremo che controlla le nostre vite oppure no? Siamo in un universo in cui l'anima è immortale oppure no? Ma, soprattutto, se tutti gli universi esistono realmente, i concetti di vero o falso valgono ancora? Qualsiasi cosa io dica, per quanto assurda, può essere vera in un altro universo. E tutti i personaggi inventati nei libri, tutte le storie inventate, diventano reali al pari di noi. Una volta sono arrivata ad un'altra conclusione. Se esistono infiniti universi, forse il compito della nostra anima non è altro che uno sperimentare vite diverse in realtà diverse, alla ricerca della perfezione. La mia vita potrebbe quindi essere un esperimento, un tentativo. La mia anima forse comincerà una nuova vita dopo la mia morte, magari in un universo totalmente diverso da questo. Non so se ciò sia vero, ma la prospettiva mi piace.
Giulia



Cara Giulia,
Una dimensione parallela o universo parallelo è un universo ipotetico separato e distinto dal nostro ma coesistente con esso; nel senso scientifico del termine, nella stragrande maggioranza dei casi immaginati è identificabile con un altro continuum spazio-temporale. L'insieme di tutti gli universi paralleli è detto multiuniverso. Alcune teorie cosmologiche e fisiche dichiarano l'esistenza di universi multipli, forse infiniti, in alcuni casi interagenti, in altri no. Così come il viaggio nel tempo, il passaggio in una o più dimensioni parallele è un tema classico della fantascienza. Una realtà parallela, nell'ambito del fantastico, è chiaramente un espediente che lascia infinite possibilità, poiché se nella nostra realtà certe cose si sono evolute in altre, in quella parallela potrebbe non essere successo così. Una delle teorie sugli universi paralleli più citate dai fisici è stata l'interpretazione dei "molti mondi" della meccanica quantistica, proposta da Hugh Everett III nel 1956. Dal momento che viviamo in un universo pluridimensionale secondo le teorie cosmologiche di Hawking, di Michio Kaku ed altri autorevoli scienziati era più che lecito pensare alla possibilità di interferire con questi universi che potremmo chiamare paralleli; e fino a qualche anno fa si pensava che “I buchi neri potessero rappresentare un tunnel tra il nostro universo ed altri universi.”Ma nel 2004, Hawking, dopo circa 35 anni, ha ammesso di aver perso la scommessa con un suo collega, ammettendo il suo errore e svelando quello che c'è di nuovo a proposito dei buchi neri. L'errore era stato ritenere che i buchi neri distruggessero tutto ciò che fagocitavano e, malgrado dopo eoni fossero destinati a dissolversi, niente di ciò che c'era prima poteva sopravvivere, in nessuna forma. Invece le cose non starebbero in questo modo. Hawking è giunto alla conclusione che nel processo di disintegrazione dei buchi neri, la materia e l'energia che li costituiva viene restituita agli orizzonti infiniti dell'universo in una forma stravolta, ovvero in nessun modo riconoscibile rispetto a com'era prima. Nella sua precedente visione, Hawking ammetteva anche la possibilità che la materia caduta in un buco nero, finisse in un universo parallelo. "Non c'è un altro universo neonato dall'altra parte, come pensavo una volta," ha affermato Hawking, dispiacendosi con gli appassionati di fantascienza. "
Ma l'informazione rimane saldamente nel nostro universo e non c'è alcuna possibilità di usare i buchi neri per viaggiare verso altri universi".
Un’altra domanda ancora irrisolta, sempre derivante dalla meccanica quantistica, che potrebbe ipotizzare degli scambi con universi paralleli, è quella relativa al cosiddetto TUNNEL QUANTISTICO, in cui la materia scaturisce dal NULLA (vedi il POST precedente in cui si introduce la meccanica quantistica, spiegata da Tiziano Cantalupi, e l’immagine dell’onda che per superare un ostacolo, prende in prestito più energia, e superato l’ostacolo la restituisce). Non sappiamo, ancora, se questa materia avuta in prestito viene proprio dal NULLA o da un universo parallelo.
Vediamo, invece, qual è una delle teorie scientifiche oggi più condivise. La Teoria delle superstringhe è un tentativo di spiegare tutte le particelle e le forze fondamentali della natura in un'unica teoria considerandole come vibrazioni di sottilissime stringhe supersimmetriche (ovvero i mattoni dell’universo). Tale teoria prevede un universo ad 11 dimensioni, che genererebbe 10 elevato a 500 universi paralleli (ovvero una numero con 501 cifre, in pratica, quasi infinito). La nostra mente trova difficile visualizzare queste dimensioni perché noi possiamo muoverci soltanto in uno spazio a tre dimensioni.
Nella visione di questa teoria, ogni universo sarebbe differente dagli altri, in un modo che è difficile anche da concepire, ma sicuramente diverso da come ipotizzato nei film o racconti di fantascienza, in cui, ad esempio, tutto ciò che in questo universo è falso in un altro può essere vero. Per quanto riguarda il concetto di “anima”, spero di riprenderlo in uno dei prossimi POST di questo BLOG; ma preannuncio già di non credere ad un’anima di carattere metafisico classico come la ipotizzava, ad esempio, Platone. In questa nuova concezione, meno in contrasto con il progresso scientifico, l’anima difficilmente viaggerebbe da un universo parallelo ad un altro.
Un caro saluto
Alessandra


Cara Giulia,
Possiamo incominciare con una storiella divertente. Giovanni di Salisbury (XII sec.) nel Policraticus, racconta che Alessandro Magno era talmente avido di gloria che, quando il suo compagno Anassarco gli riferì che il suo maestro Democrito parlava di un numero infinito dei mondi, abbia esclamato: “Ahimé!, me sventurato, dato che non sono ancora riuscito a impadronirmi di neanche uno di questi mondi!”. Pensa che, secondo altri ancora, si sarebbe persino messo a piangere. Ma, ovviamente, non ci fermiamo qui e cerchiamo di percorrere un sentiero tra le opere dei filosofi. Soprattutto dei filosofi antichi, perché già in Grecia alcuni autori ebbero l’idea di una pluralità di mondi. In uno dei frammenti ordinati da Diels-Kranz si legge: “Anassimandro, Anassimene, Archelao, Senofane, Diogene, Leucippo, Democrito ed Epicuro (ammettono) mondi innumerevoli, (dispersi) in varie direzioni dell’infinito”. (Cfr. Democrito. Raccolta dei frammenti, Milano, Bompiani, 2007).
Ippolito di Roma (III sec. d.C.) ad es. fa riferimento proprio al grande filosofo atomista Democrito (IV sec. a.C.) e scrive che Democrito (come Leucippo) “sosteneva […] che i mondi sono infiniti di numero e differenti per grandezza, per cui in alcuni non esistono né Sole né Luna, in altri ve ne sono di più grandi che nel nostro cosmo, e in altri ancora di più. Gli intervalli tra i mondi sono diseguali, e così da un parte vi sono più mondi e da un’altra meno, e taluni si accrescono, mentre altri sono al culmine dell’accrescimento; altri, poi, si assottigliano, cosicché da una parte nascono nuovi mondi e dall’altra spariscono. I mondi si corrompono collassando uno con l’altro. Alcuni mondi sono privi di animali, di piante e persino di umidità.”(Ippolito, Refutatio omnium haeresium, 1986).
Ma è Lucrezio (I sec. a. C.) che nel De rerum natura ci fornisce bellissime immagini dell’infinità dei mondi e parla di un nuovo volto della natura che si deve rendere pubblico (v. il secondo libro de La natura delle cose, Mondadori, 1992, pp. 155 e sgg.). “Certo, una cosa di assoluta novità si appresta a giungere alle tue orecchie, un nuovo volto della natura a manifestarsi. Ma nessuna cosa esiste tanto facile, che all’inizio risulti difficile a credersi, e ugualmente nulla esiste di così grande né di così stupefacente che, poco per volta, non smettano tutti di guardarlo ammirati”.
D’altra parte nessun uomo può credere che: “mentre in ogni direzione s’estende, sconfinato, lo spazio […] solo qui la terra e il cielo siano stati creati”. Per Lucrezio i mondi si formano per aggregazione casuale di atomi, dunque senza uno scopo, senza intenzionalità alcuna; però per lui è “necessario [ammettere] che esistono altrove tali aggregati della materia quale è questo, che l’etere racchiude in avido abbraccio”. C’è talmente tanta materia nell’universo e “di atomi la quantità è così grande, quanta non potrebbe contarla tutta una vita di un essere vivo” che è necessario ammettere che “esistono altri mondi in altre parti dello spazio, e diverse razze di uomini e stirpi di animali”.
Tra i vari esempi, Lucrezio è convinto che nell’universo nessuna cosa sia unica “che nasca isolata e sola s’accresca”, e così bisogna anche concepire l’universo stesso: “Pertanto il cielo, in simile modo, occorre ammettere – e la terra e sole luna mare, le altre cose che esistono – che non sono isolati, ma in numero, invece, che non puoi contare”.
Si esce dunque già con questi autori dal sistema aristotelico-tolemaico, anche se la cosmologia che è prevalsa dalla Grecia classica al Medioevo ha concepito l’universo come unico, chiuso e finito. In passato si pensava prevalentemente ad un solo universo esistente, limitato dal cielo delle stelle fisse a cui vennero poi aggiunti il nono cielo e il primo mobile. Fuori da questo non c’era nulla, neppure il vuoto, perché tutti gli oggetti sono nell’universo mentre l’universo non è in nessun luogo, avrebbe detto Aristotele. In qualche modo, diverso e separato dall’universo, vi era solo Dio per i cristiani. Il mondo era concepito dunque anche come finito, perché Aristotele ammetteva l’infinito solo come idea e non come realtà concreta. Era dunque un universo composto di sfere concentriche, non intese in modo ideale, ma come qualcosa di solido su cui erano fissati stelle e pianeti. Oltre alla sfera delle stelle fisse vi erano i diversi cieli: di Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere, Sole e Luna. Sotto la Luna vi era la zona con i quattro elementi (terra, acqua, aria, fuoco) e la Terra immobile al centro di tutto. Il mondo degli antichi era inoltre qualitativamente differenziato in due zone. Così racconta il filosofo Giovanni Fornero: “una perfetta e l’altra imperfetta. La prima era quella dei cieli o del cosiddetto “mondo sopralunare”, formato di un elemento divino, “l’etere, incorruttibile e perenne, il cui unico movimento era di tipo circolare e uniforme, senza principio e senza fine, eternamente ritornate su se stesso. La seconda zona era quella del cosiddetto “mondo sublunare”, formato dai quattro elementi (terra, acqua, aria, fuoco), aventi ognuno un suo “luogo naturale” e dotati di moto rettilineo (dal basso verso l’alto o viceversa), che avendo un inizio e una fine dava origine ai processi di generazione e corruzione” (Cfr. Itinerari di Filosofia v. II, 2003). E più avanti scrive: “Questa visione astronomica appariva conforme non solo al senso comune, e alla sua quotidiana constatazione dell’immobilità della Terra e del moto dei cieli, ma anche alla mentalità “metafisica” prevalente, portata a concepire il mondo come un organismo gerarchico e finalisticamente ordinato e disposto”.
Lo sconvolgimento di questo modo di pensare avvenne prima con la pubblicazione dell’astronomo polacco Niccolò Copernico, De revolutionibus orbium coelestium (La rivoluzione dei corpi celesti) nel 1543 (anno in cui poi morì). Copernico riteneva la dottrina tolemaica “antieconomica”, ed errata anche perché troppo complicata e macchinosa. Pensa che si narra che Alfonso X di Castiglia (XIII sec.) abbia affermato che lui al posto di Dio avrebbe fatto girare i pianeti in modo più semplice. Per dire. Ma un altro grande autore che ha dato un enorme impulso al superamento della visione degli antichi è, nel Rinascimento, Giordano Bruno (1548-1600). Con il suo entusiasmo e il suo coraggio intellettuale ha superato anche l’idea dell’universo centrato sul sistema solare, per riproporre con determinazione l’idea della pluralità dei mondi dell’infinità dell’universo. Nell’opera De l’infinito, universo e mondi, fornisce un’importante speculazione sull’infinità dei mondi (porgo la mia contemplazione circa l’infinito universo e mondi innumerabili). Egli pensa ad una pluralità di sistemi solari con altri abitanti e pianeti come il nostro: “sono terre infinite, son soli infiniti, è etere infinito”. E quando Burchio chiede a Fracastorio se gli altri mondi sono abitati come questo, Fracastorio risponde: “Se non cossì e se non migliori, niente meno e niente peggio: perché è impossibile ch’un razionale e alquanto svegliato ingegno possa immaginarsi che sieno privi di simili e migliori abitanti”. (De l’infinito, universo e mondi, Utet, 2002, dialogo III, p. 111).
Dopo le ulteriori scoperte della scienza contemporanea e pensando a queste tematiche mi viene da ripetere quello che scrisse Pascal: « Le silence éternel de ces espaces infinis m'effraie » (il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi spaventa), ma anche da dire, con Kant, che il cielo stellato sopra di me continua a riempire il mio animo di meraviglia.

Un caro saluto,
Alberto


Cfr. anche: Alex Vilenkin, Un solo mondo o infiniti? Alla ricerca di altri universi, Cortina Raffaello, 2007.

lunedì 30 novembre 2009

La meccanica quantistica: la più grande rivoluzione di tutti i tempi


"Chi non è attraversato da un senso di vertigine, non può dire di aver capito appieno la meccanica quantistica" (Seth Lloyd "Il programma dell'universo"). E' questo il nome della teoria su cui si fonda la fisica moderna. L'esigenza di tale teoria si è fatta strada nel momento in cui la comunità scientifica, dopo essere ormai pervenuta ai tre consolidati sistemi di leggi ( leggi del moto, leggi dell'elettromagnetismo, leggi della gravità), cercò di spiegare la costituzione microscopica della materia. La teoria dell' elettrone sviluppò l'ipotesi che l'atomo si costituisse di un nucleo pesante, attorno al quale ruotassero vorticosamente gli elettroni.
Quando, tuttavia, si cercò di spiegare il moto degli elettroni attraverso le leggi della meccanica classica teorizzata da Newton, il tentativo si rivelò un netto fallimento: i fenomeni atomici, sottraendosi alle leggi classiche del moto, risultano particolarmente strani. Dunque il senso di vertigine della quantizzazione deriva dal fatto che si tratta di una teoria che va contro le concezioni del senso comune, che sconvolge le più naturali aspettative: in una parola, una teoria "ASSURDA".
Ciononostante, per quanto assurda possa risultare anche alle menti più salde, la meccanica quantistica ben si appresta a spiegare fenomeni quali l'interazioni fra gli atomi (tant'è che per questo elemento è possibile considerare la chimica un aspetto della fisica), l'interazione della luce con la materia ( elettrodinamica quantistica o QED), e tanti altri. Inoltre, la meccanica quantistica è la teoria più precisa conosciuta dall'uomo, in quanto non presenta alcuna significativa discrepanza tra la teoria e gli esperimenti.
Altro aspetto particolare della teoria che segna una vera e propria rottura con la concezione classica è il seguente: se per la fisica classica il suono e la luce hanno comportamneto ondulatorio, per la fisica quantistica essi sono descritti in termini di particelle: ecco che il suono è un insieme di "fononi", la luce un fascio di "fotoni". Tuttavia, se , ad esempio, un fascio di fotoni (ma la stessa cosa vale per un fascio di elettroni, per esempio) viene convogliato verso una lastra a doppia fenditura ( esperimento di Young) continua a mostrare una figura di interferenza, in virtù della natura onda-corpuscolare della luce.
Ma la cosa più sorprendente è che tale dualità (onda-corpuscolo) si applica a tutti i corpi: a qualunque oggetto è associabile un comprtamento ondulatorio. A tal riguardo, l'aspetto che mi sconvolge profondamentesta nel fatto di come l'esperimento della doppia fenditura mostri, in realtà, come una particella non deve necessariemente trovarsi "qui" o "lì" ( nonchè scegliere per quale fenditura passare): grazie alla sua natura ondulatoria, la particella può stare "qui o lì" contemporaneamente (ossia passa contemporaneamente per entrambe le fenditure). "L'ubiquità" della materia è una proprietà ampiamente sfruttata nella computazione quantistica.
Infine, in un altro esperimento, quello della riflessione parziale della luce, su un fascio di 100 fotoni convogliato su una superficie di vetro, solo il 4% di essi viene riflesso: risulta evidente che, in un contesto del genere, la fisica si limita a calcolare la probabilità di un certo evento, in quanto è impossibile, in questo caso specifico, prevedere che cosa faccia il singolo fotone ( cioè se viene riflesso o rifratto).
A questo punto, come è possibile che la fisica, scienza da sempre ritenuta esatta nelle sue previsioni, passi da una concezione deterministica ad una concezione indeterministica, nella quale ogni forma di certezza è soppiantata da realtà probabilistiche?
E per quale motivo, invece, l'ubiquità della materia si manifesta a livello microscopico e non a quello macroscopico?
Paolo


Caro Paolo,
la meccanica quantistica è una scienza così ostica, basata su formule matematiche molto complesse, che non è semplice da spiegare. Tra tutti gli autori e divulgatori che conosco, ti consiglio di leggere qualcosa di Tiziano cantalupi, che ha il pregio di essere più comprensibile rispetto ad altri. Vedi http://web.archive.org/web/20071103180127/http://www.geocities.com/capecanaveral/hangar/6929/Mqfull.html, di cui riporto qui la parte iniziale del contenuto del link:

"LA TEORIA QUANTISTICA : UNA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA E FILOSOFICA PASSATA SOTTO SILENZIO di Tiziano Cantalupi

Le grandi rivoluzioni della scienza sono spesso seguite da sconvolgimenti in campo filosofico e sociale. Le tesi di Copernico, ad esempio, il quale sostenne che la Terra non occupava il centro dell’universo, innescarono un processo di sgretolamento di dogmi religiosi e filosofici che cambiarono profondamente la società europea degli inizi del Rinascimento. La teoria evoluzionistica di Darwin (secoli dopo), con la distruzione della credenza in uno stato biologico speciale degli esseri umani, produsse effetti simili. Le teorie di Einstein infine, con l’affermazione che "tutto è relativo", diedero una spallata definitiva ad un certo modo, "assolutistico", di intendere la scienza e la vita. Con questi presupposti, desta notevole stupore che la più grande rivoluzione scientifica di tutti i tempi sia passata per lo più inosservata agli occhi del grosso pubblico. E questo non già perché le sue implicazioni abbiano scarso interesse, ma perché queste implicazioni sono talmente sconvolgenti da risultare quasi incredibili persino per gli stessi scienziati che le concepirono. La rivoluzione di cui si sta parlando si è consumata, nella sua fase più "cruenta", durante i primi trenta anni del ventesimo secolo ed è conosciuta col nome di Teoria Quantistica o Meccanica Quantistica.

Nata come tentativo di spiegare la fisica delle particelle elementari, la Teoria Quantistica in seguito crebbe sino ad incorporare gran parte della microfisica e parte della macrofisica. Oggi fra alterne vicende può dirsi (nella sua versione ortodossa) universalmente accettata.
Sebbene attualmente nessuno dubiti della sua efficacia pratica ci sono ancora ampie schiere di studiosi che ne mettono in discussione le conseguenze, specie quando queste conseguenze vengono estese alla natura della realtà.

Fondamenti della meccanica quantistica :

- Non esiste una realtà obiettiva della materia, ma solo una realtà di volta in volta creata dalle "osservazioni" dell’uomo.
- Le dinamiche fondamentali del micromondo sono caratterizzate dall'acausalità.
- E’ possibile che, in determinate condizioni, la materia possa "comunicare a distanza" o possa "scaturire" dal nulla.
- Lo stato oggettivo della materia, è caratterizzato da una sovrapposizione di più stati.

La conclusione più sconvolgente che si può trarre da quanto sino ad ora affermato è senza dubbio quella che asserisce che la realtà è tale solo se è presente l’uomo con le sue "osservazioni" ; con i suoi esperimenti. A differenza delle precedenti rivoluzioni scientifiche, le quali avevano confinato l’umanità ai margini dell’universo, la Teoria Quantistica riporta l’uomo ("l’osservatore") al centro della scena. Alcuni eminenti scienziati si sono spinti a ipotizzare che la Teoria dei Quanti abbia perfino risolto l’enigma del rapporto tra Mente e Materia, asserendo che l’introduzione nei processi di misura quantistica dell’osservazione umana è un passo fondamentale per il costruirsi della realtà.

UN GRANDE DIBATTITO

Seppur fortemente avversata sin dal suo apparire (Einstein per manifestare la sua contrarietà arrivò a coniare la frase "Dio non gioca a dadi") la Meccanica Quantistica, è oggi universalmente accettata. Essa, oltre spiegare processi a livello microscopico come la stabilità dell’atomo o processi macroscopici come la superconduttività, ha ottenuto recenti eclatanti conferme sperimentali : si pensi alla diseguaglianza di Bell. Ciononostante il grado di diffidenza nei confronti di questa materia - sempre in bilico tra Fisica e Metafisica - è rimasto (come si diceva anche dianzi) alto. I suoi assunti, al limite dell’assurdo, mettono a dura prova le menti più aperte.
Anche nell’era dei computer superveloci, la Teoria Quantistica più che una scienza "accettata" si caratterizza per una scienza "subita". E sono soprattutto gli studiosi di microfisica, i quali ogni giorno hanno a che fare con i suoi assunti filosofici e con il suo formalismo matematico, che più soffrono questo stato di cose. Recentemente però, una agguerrita schiera di fisici, la cui punta di diamante è rappresentata dall’inglese S.Hawking, è riuscita a rovesciare la situazione, volgendo a loro favore proprio quelle "conseguenze" della Meccanica Quantistica che maggiormente rendevano perplessi i fisici atomici. In questo contesto Hawking crea una vera e propria disciplina scientifica ; la Cosmologia Quantistica, attraverso la quale molti misteri dell’universo trovano una razionale spiegazione. E questo, come detto, partendo proprio dagli assunti quantistici più "rivoluzionari". In questa nuova prospettiva trova coerente giustificazione la nascita della materia dal nulla.
La Fisica del Quanti, in effetti, prevede che in determinate condizioni la materia possa scaturire dal nulla. Questa non è fantascienza, ma scienza nel senso più alto del termine. E qui tornano alla mente le profetiche parole del grande W.Heisenberg quando affermava : "La più strana esperienza di quegli anni [1920 – 1930] fu che i paradossi della Teoria Quantistica non sparirono durante il processo di chiarificazione; al contrario, essi divennero ancora più marcati e più eccitanti ... ".

Sì, "eccitanti", è la parola giusta per definire il ventaglio di possibilità che allora si dischiudeva e che anche oggi può dischiudersi affrontando senza condizionamenti la Teoria dei Quanti.
Una nuova interpretazione del principio quantistico denominato "Probabilismo", ad esempio, deporrebbe a favore del libero arbitrio. Una lettura a trecentosessanta gradi della diseguaglianza di Bell (diseguaglianza che dimostra la possibilità di azioni a distanza) prova che l’universo non può più essere considerato una mera collezione di oggetti, ma una inseparabile rete di modelli di energia vibrante, nei quali nessun componente ha realtà indipendente dal tutto.

IL PROBABILISMO E L’ACAUSALITA’

All’inizio del ventesimo secolo, i fisici ritenevano che tutti i processi dell’universo fossero perfettamente calcolabili purché si avessero a disposizione dati di partenza sufficientemente precisi. Questa filosofia deterministica aveva preso le mosse due secoli prima quando Newton, con la sua legge di gravitazione universale, era riuscito a descrivere le orbite dei pianeti. In un sol colpo lo scienziato inglese aveva dimostrato che una mela che cade da un albero e un corpo celeste che si muove nello spazio, sono governati dalla stessa legge : l’universo ticchettava come un gigantesco orologio perfettamente regolato.
Ma in concomitanza con la fine dell’epoca vittoriana, quella presuntuosa sicurezza svanì ; avvenne nel momento in cui i fisici tentarono di applicare quelle leggi meccanicistiche al comportamento del mondo atomico. In quel minuscolo regno, gli eventi non fluiscono armonicamente e gradualmente con il tempo, ma si modificano in modo brusco e discontinuo. Gli atomi riescono ad assorbire o liberare energia solo in forma di pacchetti discreti chiamati Quanti (da qui il termine Meccanica Quantistica). A questo livello la natura non funziona più come una macchina, ma come un gioco di probabilità. Nei primi decenni del nostro secolo lo scienziato danese Niels Bohr scoprì che le particelle atomiche si comportavano in modo molto meno prevedibile che non gli oggetti ordinari come le matite o le palle da tennis. Le parole "sempre" e "mai", di cui si faceva largo uso per i processi del mondo macroscopico, dovettero essere rimpiazzate dai termini "spesso" e "raramente". Non si poteva dare più nulla per scontato. (continua)”.

Prendiamo, quindi, in esame le domande alla fine della tua lettera. Oggi sappiamo che le leggi fisiche, contrariamente a quanto si credeva, non sono assolute, ma LOCALI ed APPROSSIMATE nel loro ambito. La fisica di Newton vale, in modo sufficientemente approssimato, nella maggior parte delle nostre comuni osservazioni; la relatività di Einstein nelle grandi distanze interplanetarie o galattiche; e la Meccanica Quantistica a livello di particelle subatomiche.
Per quanto riguarda, invece la tua domanda specifica sull’UBIQUITA’, la risposta sta nel fatto sopra richiamato che “ Lo stato oggettivo della materia, è caratterizzato da una sovrapposizione di più stati.”; in questo caso, quello ondulatorio e quello corpuscolare”. In realtà non si tratta di una vera ubiquità, ma del fatto che, come hai ben detto, le particelle si comportano in modo NON DETERMINISTICO, ma PROBABILISTICO; per cui hanno una certa probabilità di essere in un posto ed un’altra probabilità di essere in un posto differente. Se estendiamo il concetto non a una sola particella, ma a un fascio di particelle, come ad esempio fotoni od elettroni che devono attraversare due fessure vicine, alcune particelle passeranno in una ed altre particelle nell’altra (il che equivale ad una natura ondulatoria della materia). Cosa che non si verifica a livello macroscopico.

Per maggiori approfondimenti e chiarimenti sul tema, si può consultare il POST del mio blog parallelo (a più voci):
http://apiuvoci2.blogspot.com/2009/10/la-memoria.html
(Misteri e teorie della meccanica quantistica, del 30 Ottobre 2009)

Un caro saluto,
Alessandra


Caro Paolo,
Abbiamo intitolato questo post: “la meccanica quantistica, la più grande rivoluzione di tutti i tempi”. Il momento della scoperta scientifica, ma soprattutto della sua divulgazione, d’altra parte, è sempre stato un evento straordinario, sensazionale, accompagnato da meraviglia e stupore. Qualche esempio: il 13 marzo 1610 Galileo pubblicò il Sidereus nuncius con una “tiratura” di 550 copie. In meno di una settimana il libro fu introvabile. L’ambasciatore inglese a Venezia, Sir Henry Wotton, il giorno stesso, ne mandò una copia al re Giacomo I e la accompagnò con una lettera in cui scrisse: “la notizia più strana mai ricevuta da nessuna parte della Terra”. Si racconta che Keplero “arrossì per lo stupore e, incapace di trattenere la sua gioia, cominciò a ridere senza ascoltare fino in fondo l’amico che già sulla strada lo informava delle incredibili novità astronomiche”. (Introduzione di Andrea Battistini al Sidereus nuncius, Marsilio, 1993). La fama di Galileo si diffuse rapidamente. Infatti, due anni dopo, l’annuncio delle scoperte celesti arrivò a Mosca e in India e nel 1613 ne venne fatta una sintesi in cinese (Galileo=Chia-Li-Lueh); nel 1631 il cannocchiale venne segnalato in Corea, nel 1638 in Giappone. Mi piace ricordare che Benedetto Castelli, uno degli interlocutori di Galileo nelle lettere copernicane, quando ormai il suo maestro era ormai quasi cieco, utilizzò delle bellissime parole per descrivere gli “occhi” dell’uomo (Galileo) che avevano visto ciò che nessuno prima di lui era riuscito a scorgere. Egli scrisse che l’occhio del suo maestro fu: “occhio tanto privilegiato, e di tanto alte prerogative dotato, che si può dire, e con verità, ch’egli abbia visto più egli solo che tutti gli occhi insieme degli uomini passati, ed abbia aperti quelli de’ futuri, essendo toccato in gran parte a lui solo fare tutti gli scoprimenti celesti ammirandi a’ secoli futuri” (cit. dall’introduzione).
Nel 1686 Newton presentò i suoi Principia alla Royal Society di Londra. Il grande scienziato Ilya Prigogine (Mosca 1917), premio Nobel per la chimica nel 1977, insieme a Isabelle Stengers, nel libro La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza (Einaudi [1981] 1999) scrive che: “Si esagera appena nel dire che il 28 aprile 1686 fu una delle piú grandi date nella storia dell'umanità”. Fu infatti il momento in cui vennero presentate le leggi fondamentali del moto e vennero spiegati concetti che usiamo ancora noi oggi, la massa, l’accelerazione, l’inerzia. Il terzo libro dei Principia di Newton parlava della gravitazione universale. Ilya Progogine dice che “I contemporanei di Newton afferrarono immediatamente l'eminente importanza di questo lavoro. La gravitazione divenne un argomento di conversazione a Londra e a Parigi.”
Per non parlare dello sconcerto che provocò nel secolo scorso al grande pubblico (e delle “perplessità” di alcuni suoi colleghi) la teoria della relatività di Einstein. Ma lo stupore non finisce qui. Altre “notizie più strane mai ricevute da nessuna parte della Terra”, si susseguirono rapidamente. La scienza, che si è sviluppata enormemente e in maniera molto inaspettata negli ultimi secoli, ci ha abituati a rivelazioni straordinarie che superano costantemente la fantasia, e continua quotidianamente a disorientarci nel mostrare la complessità dell’universo e ad aumentare la nostra meraviglia sia per il cosmo sia per la ricerca dell’uomo che sembra inesauribile. Prigogine, d’altra parte, ci ricorda che: “Il nostro orizzonte scientifico si è allargato fino a dimensioni veramente fantastiche. Su scala microscopica la fisica delle particelle elementari studia processi in cui sono in gioco dimensioni fisiche dell'ordine di 10ˉ15 cm e tempi dell'ordine di 10ˉ22 secondi. All'altro estremo, la cosmologia ci mette di fronte a tempi dell'ordine di 10 elevato a 10 anni, la cosiddetta «età dell'Universo». La scienza e la tecnologia sono piú vicine che mai. Le nuove biotecnologie, i progressi nella tecnica dell'informazione, promettono un cambiamento radicale nella vita delle nostre società.”
Sappiamo oggi ad es. che nel campo dell’infinitamente piccolo le leggi della meccanica quantistica hanno preso il posto di quelle della meccanica classica, mentre su scala dell'Universo, la fisica relativista ha sostituito la fisica newtoniana, anche se la fisica di Newton rimane il punto di riferimento per eccellenza, ed è sempre valida sulla nostra scala.
La natura non finisce dunque di stupirci e la scienza è “l’esaltante avventura” che ci permette di avvicinarci alla comprensione di questo mondo e di penetrarne i suoi “segreti”.

un caro saluto,
alberto

lunedì 23 novembre 2009

Identità e cambiamento



L'altro giorno stavo osservando delle foto di famiglia di cui non ero mai stato a conoscenza; alcune di esse erano molto vecchie, e tra queste ho trovato una foto di mia nonna; però una non subito ho capito chi fosse... solo analizzando i tratti somatici e la sua espressione ho successivamente capito che era lei, anche se tuttavia mi sembrava di non conoscere la persona ritratta in quella foto... Subito in me è spuntata una domanda che più volte mi sono posto: è possibile che una persona cambi radicalmente o è valido il proverbio: "il lupo perde il pelo, ma non il vizio"? Sinceramente non ho ancora trovato una risposta a questo quesito, perché proprio nel momento in cui penso che il mio giudizio sia orientato verso uno dei due poli, accade qualcosa che mi riporta a quel bivio mentale e i miei dubbi ricominciano ad imperversare nella mia testa...
Mattia



Caro Mattia,
i metafisici e, a volte, i filosofi del linguaggio e della mente, si pongono queste domande:
"Se le parti di un oggetto sono rimpiazzate una dopo l’altra, in modo che l’oggetto finale sia composto da tutte nuove parti, come nella Nave di Teseo, in che modo i due oggetti sono lo stesso oggetto?"
Vediamo quindi cos’è Il Paradosso della nave di Teseo.
"Questo paradosso esprime la questione metafisica dell'effettiva persistenza dell'identità originaria, per un'entità le cui parti cambiano nel tempo; in altre parole, se un tutto unico rimane davvero se stesso (oppure no) dopo che, col passare del tempo, tutti i suoi pezzi componenti sono cambiati (con altri uguali o simili).
Si narra che la nave in legno sulla quale viaggiò il mitico eroe greco Teseo fosse conservata intatta nel corso degli anni, sostituendone le parti che via via si deterioravano. Giunse quindi un momento in cui tutte le parti usate in origine per costruirla erano state sostituite, benché la nave stessa conservasse esattamente la sua forma originaria.
Ragionando su tale situazione (la nave è stata completamente sostituita, ma allo stesso tempo la nave è rimasta la nave di Teseo), la questione che ci si può porre è: la nave di Teseo si è conservata oppure no? Ovvero: l'entità (la nave), modificata nella sostanza ma senza variazioni nella forma, è ancora proprio la stessa entità? O le somiglia soltanto?
Tale questione si può facilmente applicare a innumerevoli altri casi; per esempio alla scrupolosa conservazione di alcuni antichi templi giapponesi (anch'essi principalmente in legno, come la nave di Teseo), per i quali ci si può domandare se siano ancora templi originali.
Si può anche rivolgere il paradosso riguardo l'identità della nostra stessa persona, che nel corso degli anni cambia ampiamente, sia nella sostanza che la compone sia nella sua forma, ma nonostante ciò sembra rimanere quella stessa persona.
Gente con le idee chiare riguardo alla risposta da dare al paradosso di Teseo sono sicuramente gli shintoisti giapponesi. Infatti il loro tempio più importante, il tempio di Ise, costruito in legno, ogni venti anni viene abbattuto e ricostruito completamente con lo stesso disegno architettonico su un terreno a fianco del precedente. Tale cerimonia è detta shikinen sengu, al fine di ricordare che tutto muore e risorge, ed il tempio da essi è considerato originale ma rinato.

Forse la vera identità si costruisce nel cambiamento, come la vera nave di Teseo che si rinnova con legno nuovo per non affondare.
Nel corso della nostra vita, dall’infanzia sino alla fine dell’esistenza, c’è un nucleo essenziale che permane identico? Com’è possibile se ogni sette anni le nostre cellule si rinnovano completamente? Come è possibile se il nostro corpo cambia? Non mutano forse, con lui, anche i nostri pensieri e il nostro modo di vedere il mondo?
Ci hanno insegnato che l’identità ha origini di tipo genetico, ma si sviluppa anche per imitazione di modelli genitoriali, di sesso, di gruppo di appartenenza, etc.
"

Eric Kandel, nobel del 2000 per la medicina e le neuroscienze, è stato lo scopritore del funzionamento della nostra memoria, che usa le sinapsi tra i neuroni e le funzioni trascrizionali del DNA per trasmetterla in parte ai discendenti. Kandel ha affermato che: IL GOGITO ERGO SUM di cartesiana memoria deve essere aggiornato in:
Io sono quello che sono perché mi ricordo di cosa ho pensato”.
Da qui, per un essere umano, la MEMORIA è il collante che COSTRUISCE il “SE AUTOBIOGRAFICO” e che quindi ci dà la nostra IDENTITA’ (per analogia anche la memoria e la cultura di un popolo ne costituiscono la sua IDENTITA’). Del resto, senza memoria non vi è identità.
La memoria, però, si accresce in continuazione, e a volte dimentica degli episodi, per cui anche la MEMORIA SI EVOLVE (nel cambiamento continuo). Per completezza, bisogna aggiungere, che abbiamo anche altre memorie (Quella del DNA, e quelle registrate in supporti fisici artificiali: libri, internet, etc.).
Lo stesso, per un popolo o un gruppo sociale. Le sue memorie e la sua cultura, in parte, derivano da tradizioni orali, ma anche da scritture nella varie lingue, nelle raffigurazioni e nei simboli.

In conclusione sia per un singolo essere umano, e sia per un popolo o un gruppo sociale, il complesso delle nostre memorie (che si evolvono) ci fornisce la nostra identità.
Infine, ogni DNA di un organismo biologico è unico, ma questo non impedisce che si evolva in continuazione.
Se tutti i nostri ricordi e le nostre informazioni venissero registrate su qualche supporto (ad esempio in uno spazio internet), allora solo dopo la nostra morte biologica, tali ricordi diventerebbero IMMUTABILI e tale diventerebbe la nostra IDENTITA’; ed esiste una nuova teoria filosofica che prevede qualcosa di simile, che non debba essere necessariamente l’anima teorizzata da Platone e Sant’Agostino.

Un caro saluto,
Alessandra


Caro Mattia,
C’è qualcosa che sopravvive al cambiamento, alle più profonde trasformazioni che avvengono dentro di noi nel corso dell’esistenza? Che cosa conserviamo del bambino che eravamo o che cosa conserveremo dell’adolescente che ora siamo nell’età più adulta? E, al termine della vita, dove saranno tutte le varie identità che siamo stati o che abbiamo attraversato? Un importante psicoanalista americano contemporaneo, James Hillman (1926), nel libro La forza del carattere (Adelphi, 2000), ritiene che con il passare dell’età e dopo tutte le irreversibili modifiche a cui va incontro il nostro corpo, in realtà, si riveli sempre più il nostro “carattere”. Più o meno la stessa storia della nave di Teseo è raccontata anche dall’autore con un esempio (un po’ meno elevato di quello mitologico, ma sempre efficace): quello di un paio di calzini. Scrive Hillman: “Prendiamo, per esempio, il nostro paio di calzini di lana preferito. Si fa un buco in un tallone, e noi lo rammendiamo. Poi si fa un buco al posto dell'alluce, e rammendiamo anche quello. Rammenda oggi, rammenda domani, alla fine sono più i rammendi della lana originale e il nostro amato calzino è fatto di una lana completamente diversa. Eppure è sempre lo stesso calzino. In relazione all'aspetto e in relazione al suo compagno infilato nell'altro piede, è sempre lo stesso calzino. I due calzini vanno a spasso insieme, stanno ripiegati insieme nel cassetto; anzi, anche in relazione a se stesso, riguardo alla propria identità, si tratta sempre dello stesso calzino, benché sia diverso.” È cambiata tutta la lana, ma è rimasta la “forma” del calzino. Così avviene anche per il corpo. Dice l’autore: “Il corpo umano è simile al nostro calzino: si scrolla via le sue cellule, ricambia i fluidi, fa fermentare nuove colture di batteri per sostituire quelli morti. Con il passare del tempo, la materia di cui il nostro corpo è fatto diventa tutt'altra, ma noi siamo sempre noi, gli stessi. Non ho un centimetro quadrato di pelle visibile che sia uguale a prima, non un grammo di materia ossea uguale, eppure io non sono qualcun altro”.
Se la differenza tra noi e gli altri fosse definita dalla fisica (Due corpi non possono mai occupare lo stesso spazio nello stesso tempo), dalla logica (A=A, ogni cosa è uguale a se stessa) o dal diritto (tutti gli uomini sono uguali davanti alla legge: ossia ogni individuo ha gli stessi diritti), allora saremmo facilmente interscambiabili. In queste formule è salvaguardata la forma generale, ma non compare ancora l’unicità delle persone. C’è l’individualità, ma mancano le peculiarità specifiche della persona. L’individualità possiamo dire che è la “forma” dell’uguaglianza: ogni individuo è uguale ad un altro dal punto di vista del diritto. Ma l’unicità della persona dipende invece dalle differenze qualitative che formano ciascuno di noi; differenze che si affinano con il tempo. Certamente l’unicità della persona si deve realizzare nel corso di tutta la vita: è come dire che non solo A=A, secondo un principio di identità astratto, ma anche che A =A≠A (Hegel) ossia che A, proprio nella trasformazione, rimane fedele a se stesso. L’identità pertanto non è qualcosa di astratto, ma è legata alla specificità di ognuno di noi; è dunque segnata dai nostri tratti caratteristici e da ciò che ci distingue e ci rende esclusivi.
C’è qualcosa di coerente che si mantiene nel tempo e caratterizza la nostra identità? Pensiamo oggi ai trapianti di organi, agli innesti di vario tipo che già si fanno e che saranno all’ordine del giorno nei decenni futuri. Materiali estranei che entrano a far parte del nostro corpo e che vengono percepiti come qualcosa di noi stessi. Anche se non sempre accade così: il Corriere della Sera, qualche anno fa, riportò un caso famoso di un cinquantenne neozelandese Clint Hallam, operato nel 1998 a Lione da un’équipe di medici internazionali per un trapianto di mano, che poco tempo dopo l’intervento chirurgico rifiutò la nuova mano («Troppo larga per il mio braccio, aveva un colore diverso») e venne pertanto rioperato a Londra nel 2001 (Corriere della sera, 4 febbraio 2001).
Quindi a volte percepiamo ciò che è estraneo come qualcosa che, ormai integrato nel nostro corpo, fa parte di noi stessi, altre volte no. Ciò che viene introdotto nel nostro corpo o nel nostro sistema immunitario può diventare “la mia anca”, “la mia cornea o “il mio cuore” oppure no.
E qui non parliamo ancora della molteplicità di sfumature che viene percepita dagli altri (un po’ come in Uno, nessuno e centomila di Pirandello), ma di quell’identità che percepiamo di noi stessi con il variare del tempo; un’identità data attraverso cambiamenti e trasformazioni. Secondo Hillman, dunque, nel corso del tempo si rivelerebbe sempre più il nostro carattere, una sorta di disposizione, di modo di fare, di inclinazione che modellerebbe anche il nostro volto; come se nella vecchiaia faccia e carattere si amalgamassero maggiormente.
Le diverse psicologie fanno oggi riferimento a diversi concetti per parlare del carattere, ad es. «personalità», «Io», «Sé », «identità», «temperamento», ma secondo Hillman nessuno di questi (un po’ troppo astratti) rende “un insieme di tratti e di qualità, di abitudini e di motivi ricorrenti” della persona. Egli fa dunque riferimento al termine “carattere” (non inteso da un punto di vista religioso o scientifico), cioè alle caratteristiche individuali, all’istinto o all’intelligenza immaginativa di ognuno che rappresentano la tonalità tipica con cui ogni persona si rapporta alle cose e alle persone: “Perché il carattere agisce alla stregua di un istinto sottostante, che sottolinea incisivamente i gesti che facciamo, le parole che diciamo, segnalandone lo stile particolare. È una forza immaginante per cogliere le tracce della quale occorre intelligenza immaginativa. Esiste un sentimento intuitivo che ci impedisce di deviare troppo dalla nostra strada e di oltrepassare troppo i nostri confini coinvolgendoci in mondi estranei alla nostra natura autentica”. Allora, probabilmente, la nonna non ha “perso il pelo”, ma ha semplicemente tracciato la peculiarità della sua unicità, guidata dalla forza del suo carattere. Con questo non voglio che si pensi al carattere in modo deterministico: il vissuto, l’ambiente, la cultura, gli incontri modificano interessi, pensieri e valori. Preferisco pertanto intendere il carattere come quel tratto caratteristico con cui ognuno di noi rende unico quello che fa, la modalità con cui ognuno lascia il proprio tratto personale negli ambiti in cui è impegnato; un tratto che si modifica e si affina in base alle infinite relazioni con il mondo e con gli altri, grazie alle occasioni che via via vengono valutate, scelte o scartate nel corso della vita.

Un caro saluto,
alberto

lunedì 16 novembre 2009

Una vita felice



C'è un interrogativo che mi è nato ultimamente e riguarda il futuro. Sin da più piccola ho sempre pensato di voler studiare, andare all'università e poi trovare un buon lavoro, e una parte di me lo vuole ancora. Crescendo poi, però, mi sono posta un interrogativo e cioè se sia più soddisfacente dedicare una buona vita allo studio e al lavoro, o se invece è più saggio pensare al proprio futuro in un senso più rivolto alla famiglia. Ora come ora la mia soluzione è quella di intraprendere gli studi universitari e poi se possibile trovare un lavoro che mi permetta di conciliare lavoro e famiglia al meglio. La domanda quindi è: “non rischiamo di vivere infelici pensando troppo ai nostri singoli obiettivi, rischiando di perdere le cose belle della vita?”. “Vive più felicemente colui che dedica la propria vita allo studio e al lavoro o chi la dedica alla famiglia?".
Sarah



Cara Sarah,
la biodiversità è sicuramente una carta vincente dell’evoluzione biologica. Non esistono due organismi biologici identici (ogni DNA è unico) e questo fa sì che, anche a livello di percezione della realtà, ognuno la percepisca e la interpreti in modo differente. Noi percepiamo l’ambiente con cui veniamo in contatto con i nostri cinque sensi (qualcuno parla anche di un sesto o settimo senso), tramite “diversi linguaggi” fatti di vibrazioni e di frequenze; e da questi input, interpretiamo e ci costruiamo una nostra realtà che non coincide esattamente con quella degli altri. Sono stati Maturana e Varela, due scienziati sudamericani, ad evidenziare questo aspetto; e da un libro ON LINE di Psicosomatica dell’Università di Torino (http://www.sicap.it/merciai/psicosomatica/badjob/Luca.pdf), che consiglio vivamente di leggere, rileviamo che: “l’accoppiamento strutturale dei sistemi umani avviene all’interno dei domini linguistici, intesi come l’insieme di tutti i comportamenti linguistici di un organismo. È attraverso questa elaborazione dell’accoppiamento strutturale che diviene possibile fare distinzioni e dar forma a vita agli oggetti. Dunque, le osservazioni compiute da un individuo (ogni organismo capace di fare distinzioni è un osservatore) non possono cogliere verità oggettive sul mondo, perché esse sono sempre soltanto interazioni fra la struttura dell’organismo osservatore e il suo medium.
Ciò che per Maturana e Varela diviene importante capire è che la percezione non è e non può mai essere oggettiva, quindi tutte le osservazioni hanno uguale validità, anche gli elefanti rosa che l’alcolista vede nelle sue allucinazioni. Ne consegue che, in quanto essere umani, abitiamo in un Multiverso più che in un universo. Cioè, ognuna delle molteplici distinzioni che creiamo nella nostra interazione strutturale con l’ambiente è assolutamente legittima e non in contraddizione con altre distinzioni tracciate dallo stesso o da un altro sistema vivente.
Gli studi di Maturana e Varela, a detta degli stessi autori, portano con sé un obbligo morale, ossia il ricordarsi sempre che la certezza di un’obiettività e di un’oggettività è una tentazione cui non bisogna indulgere e che quindi il mondo che ciascuno di noi vede non è il mondo ma solo un mondo con cui veniamo a contatto insieme ad altri:
[…] farsi veramente carico della struttura biologica e sociale dell’essere umano […] ammettere che il nostro punto di vista è il risultato di un accoppiamento strutturale in un dominio di esperienza valido tanto quanto quelli del nostro interlocutore, anche se il suo ci appare meno desiderabile. […] guardare l’altro come uno uguale a noi, in un atto che generalmente chiamiamo di amore. [H. Maturana e F. Varela, 1987, pagg. 203-204]”

In parole più semplici, ogni uomo non solo percepisce e si costruisce una realtà diversa, in quanto biologicamente è diverso da tutti gli altri, ma anche il suo bagaglio del DNA e delle sue esperienze sono diversi, per cui ognuno ha una diversa sensibilità alla vasta gamma di emozioni e piaceri di cui parlo nel POST sull’amicizia, che sono quelli che determinano la felicità e la serenità.

Per essere felici (e quindi non perdere le cose belle della vita), non vi sono regole uguali per tutti, ma variano in base a mille fattori personali.

Dal punto di vista della psicoanalisi vi sono degli schemi molto generali:
1) Per essere felici bisogna conoscere cosa si vuole sia a livello conscio sia a livello inconscio e quindi FARLO!
2) Mai si è troppo vecchi o troppo giovani per essere felici.
3) In alternativa, il sogno è lo stato che più ci avvicina alla felicità.

Dal punto di vista delle neuroscienze, invece, segnalo il link:
http://www.repubblica.it/2007/02/sezioni/persone/monaco-felice/monaco-felice/monaco-felice.html
che ti riassumo brevemente: “L'uomo più felice del mondo è un monaco buddista francese, Matthieu Ricard.
Alcuni scienziati dell'università del Wisconsin hanno sottoposto il monaco a una serie di test scientifici arrivando a un responso inequivocabile: Monsieur Ricard può essere considerato "Mr Happy", l'uomo più felice del mondo.

Il gruppo di neuroscienziati dell'ateneo americano, guidati dal professor Richard K. Davidson, ha monitorato l'attività cerebrale del monaco con 256 sensori e una serie di scanning in profondità. La neuro plasticità è la disciplina che studia la strabiliante capacità evolutiva e di adattamento del cervello - misura l'attività della corteccia pre-frontale, perché più alta è l'attività di quella regione della testa e più l'individuo osservato è ritenuto in pace con se stesso e con la realtà. Se i volontari sottoposti a questo esperimento hanno riportato in genere valori tra +0,3 (disperazione) e -0,3 (beatitudine), "Mr. Happy" è arrivato ad uno strabiliante -0,45.

Ma visto che lui è riuscito a raggiungerla, qual è la ricetta per la felicità suggerita dal monaco?
Secondo quanto scritto in un libro pubblicato di recente a Londra, Matthieu Richard - sessanta anni, una brillante carriere di biologo abbandonata per abbracciare il buddismo e ritirarsi in Nepal - la felicità è soprattutto una questione di igiene mentale. L'uomo, infatti, è una creatura malleabile, capace di grandi trasformazioni. Per questo, se riesce a modificare in modo positivo e altruistico il treno dei pensieri, può migliorare la percezione e l'interpretazione del mondo. Felici, insomma, si può diventare. Ma molti non lo sanno: "Molti essere umani - spiega Ricard - vivono come clochard, inconsapevoli del tesoro sepolto sotto la loro baracca".

Come fare, dunque, per essere felici? Molto autocontrollo. Mr Happy non crede infatti assolutamente che dar libero corso alle proprie emozioni intime sia una salutare valvola di sfogo. "Un attimo di rabbia - ammonisce - può distruggere anni di pazienza".

In conclusione, se oggi ti senti di intraprendere gli studi universitari e poi se possibile trovare un lavoro che ti permetta di conciliare lavoro e famiglia al meglio, molto probabilmente per te è la soluzione giusta, ma non è detto che lo sia anche per le altre donne; e, in ogni caso, non trascurare l’altruismo sociale verso coloro che ne hanno bisogno, nei limiti delle tue possibilità, e in un contesto composito delle tue esigenze e di quelle della tua eventuale famiglia.

Un caro saluto
Alessandra



“La vita umana non sarà mai capita, se non
si terrà conto delle sue aspirazioni più alte”.


Cara Sarah,
Verso la metà del secolo scorso lo psicologo statunitense Abraham Maslow ha cercato di studiare la personalità umana e le condizioni della felicità e della realizzazione dell’uomo. Ha così pubblicato un bel libro dal titolo Motivazione e personalità ([1954, 1970], Armando Editore, 2000) in cui propone anche una importante gerarchia di bisogni che le persone devono appagare nella loro esistenza per poter condurre una buona vita. Alla base della piramide, che oggi prende il suo nome (piramide di Maslow), ci sono i bisogni più urgenti, i bisogni fisiologici: (fame, sete, sonno, potersi coprire e ripararsi dal freddo), ossia i bisogni fondamentali, legati alla sopravvivenza. Maslow scrive che “sono i più prepotenti di tutti i bisogni”: Se non vengono appagati questi, tutti gli altri passano in secondo piano. Chi è da un po’ che non mangia, ovviamente, desidera solo il cibo, ecc. Gratificati i bisogni essenziali, si presentano però altri bisogni: i bisogni di sicurezza. Di fronte al mondo e ai pericoli che la vita ci prospetta, le persone hanno bisogno di protezione e tranquillità. Maslow elenca questi bisogni: “sicurezza, stabilità, dipendenza, protezione, libertà dalla paura, dall'ansia, dal caos; bisogno di struttura, di ordine, di legge, di limiti, di un forte protettore”. Ad un gradino più alto troviamo i bisogni di affetto, di amore e di appartenenza: le persone desiderano relazioni d’affetto, sentono il dispiacere per la mancanza di amici e di persone care, avvertono la necessità di sentirsi parte di un gruppo, di appartenere a qualcuno, di essere amati e di amare e di cooperare con altri. Dopo i bisogni di appartenenza vi è il bisogno di stima; anzi, di una doppia stima: quella di una valutazione positiva di se stessi (autostima) e quella di una valutazione positiva da parte degli altri: ogni persona sente infatti il bisogno di avere successo, padronanza, competenze, ma riconosce anche il valore della stima sociale, e dunque sente l’esigenza di essere rispettato, apprezzato, approvato e non solo di sentirsi competente. Però, per quanto tutte queste esigenze siano importanti, le persone hanno un’urgenza più importante: quella di realizzare la propria vita. Pertanto in cima alla scala dei bisogni Maslow pone il bisogno di autorealizzazione. Questo bisogno è l'esigenza di realizzare la propria identità e di portare a compimento le proprie aspettative. Maslow scrive: “attualizzare ciò che è potenziale”, o “diventare tutto ciò che si è capaci di diventare”. Ogni uomo sente dunque l’esigenza di attuare le proprie migliori potenzialità, culturali, affettive e relazionali.
I bisogni, però, sono diversi da persona a persona. Maslow scrive: “in un individuo possono assumere la forma del desiderio di essere una madre ideale, in un altro possono esprimersi atleticamente, in un altro esprimersi nel fare quadri o invenzioni”. Abbiamo il desiderio di conoscere e capire, abbiamo bisogni estetici, ma non tutte le persone hanno le stesse priorità. In alcune persone ad esempio l’autostima è più importante dell’amore; altre persone particolarmente creative sentono invece l’impulso alla creatività più importante di altri, e riescono a realizzarsi anche se ad esempio manca loro il soddisfacimento di bisogni che da altri sono ritenuti fondamentali.
Allora ciò che diventa importante è conoscere i nostri bisogni in un determinato momento e saper distinguere tra le cose a cui attribuiamo più valore e quelle meno indispensabili. Ad esempio sappiamo che alcuni bisogni sono inconsci altri consci e anche che la motivazione cosciente può essere diversa da persona a persona e da cultura a cultura. Talvolta, però, i nostri bisogni sono esigenze che altri si aspettano da noi. Non ogni nostro bisogno è veramente tale; molti desideri che sembrano consentirci di ottenere la felicità sono aspirazioni talvolta della maggioranza delle persone che vivono accanto a noi, del gruppo di appartenenza o di riferimento e che, per abitudine, per desiderio di compiacere, o semplicemente per timore di essere rifiutati, assecondiamo. Ma ci accorgiamo presto che alcuni bisogni importanti non conducono alla nostra felicità e non producono gli effetti sperati. Una persona sana, secondo l’autore, è quella che “è motivata primariamente dal suo bisogno di sviluppare e di attualizzare tutte le sue potenzialità e capacità”. Allora molto dipende dai significati che, di volta in volta, attribuiamo alle cose. Se per noi è indispensabile avere una famiglia, siamo disposti a qualche rinuncia, perché sappiamo che la nostra realizzazione passa attraverso la realizzazione di una vita di coppia con la finalità di abbozzare una nuova famiglia.
Se per noi è importante ottenere un riconoscimento attraverso lo studio o il lavoro ad esempio, siamo disposti a sacrificare molto tempo per ottenere quel risultato. Ma l’urgenza nel soddisfacimento dei bisogni, col tempo, cambia. Ci sono bisogni che un tempo ci sembravano imprescindibili, come imperativi irrinunciabili, di cui gradualmente abbiamo ridimensionato l’importanza; oppure vi sono bisogni che compaiono in tempi più recenti e che in passato avevamo escluso di poter avere. Dico questo perché una persona sana è una persona complessa, che cerca di gestire molti aspetti della sua vita prendendosi cura dei vari aspetti di sé. È vero che spesso le scelte conducono a drastiche alternative, a decisioni risolutive e inconciliabili, ma è anche vero che gli obiettivi non sempre, o non necessariamente, si escludono a vicenda. Una vita sana è una vita di una persona che si prende cura dei vari aspetti di sé, in un lavoro parallelo. Forse è importante mentre si vive prendere in considerazione molti aspetti della vita e non concentrarsi in modo univoco su una cosa. Ossia ci si può dedicare allo studio, coltivando una buona vita di relazione, ampliando i propri interessi e le proprie conoscenze. Ognuno di noi non vive isolato, ma in una serie di rapporti: la scuola, il lavoro, gli amici, gli affetti cari, la famiglia, gli hobbies. La vita ci chiede di fare delle scelte: ci saranno momenti in cui dovremo sacrificare un po’ un aspetto della nostra vita, altre volte un altro. Nel tuo caso, credo che le alternative che presenti (università, famiglia) siano diverse, ma non contraddittorie. Ossia scegliendo la prima (che ti auguro), non annulli la seconda; decidi solo provvisoriamente di rinviarla. Nel frattempo vivi intensamente le relazioni interpersonali, offri la tua vitalità e le tue energie alle persone che incontri; la forza della relazione ti aiuterà anche a reggere l’impegno dei tuoi studi. È possibile che tra le amicizie con i tuoi compagni attuali o futuri e con altre persone che via via conoscerai, maturerai una legame bello e profondo a cui potrai dedicare anche più tempo. “L'auto-realizzazione, diceva Maslow, è priva di significato se non ci si riferisce ad un futuro attivo in ogni momento”(Verso una psicologia dell'essere, Ubaldini 1971).

Un caro saluto,
Alberto

lunedì 9 novembre 2009

La passione d'amore



A volte mi capita di non riuscire a capire, a definire quello che provo per le persone a cui tengo, e come si fa a stabilire con certezza il punto in cui non si tratta solo più di affetto o di una profonda amicizia, ma di qualcosa di più. Sono quasi quattro anni che trascorro la maggior parte delle mie giornate con una persona di cui mi accorgo di non poter più fare a meno: ridiamo, parliamo, ci raccontiamo i nostri problemi e le nostre esperienze, siamo complici in tutto. Spesso, manifestandogli il mio affetto, mi sono chiesta se i sentimenti che provo per lui non siano quelli che si hanno verso un semplice compagno di scuola o vanno oltre e quello che ci lega sia qualcosa di più profondo. L'unica cosa di cui sono sicura è che non c'è momento della giornata in cui non sia nei miei pensieri: per me è un punto di riferimento, una certezza sulla quale so di poter contare costantemente: ho sempre bisogno della sua presenza, ma anche della sua approvazione in ogni mia scelta. Non posso dire di essergli amica, ma allo stesso tempo nemmeno di essere innamorata, al contrario di lui: è forse proprio il fatto che mi manifesti così apertamente i suoi sentimenti che rende così difficile definire i miei e quale sia il confine tra amicizia e amore; si escludono a vicenda o si possono considerare l'uno il punto di partenza dell'altro?
Ogni riferimento a persone e/o cose è puramente casuale!!!

Alessia



Cara Alessia,
la tua domanda mi ha fatto ricordare un bellissimo articolo del corriere della sera del 2002, in cui la giornalista Serena Zoli presentava un libro di Donatella Marazziti, psichiatra e ricercatrice. Il libro si chiama “La natura dell’amore”, che ti consiglio di acquistare.
“Si dice che dell’amore si è detto tutto, eppure queste sono parole nuove. Non ancora un discorso, ma frammenti, balbettii, di un inedito discorso amoroso che, se anch’esso parte da batticuore ed estasi, è per cercare gli amplessi chimici, gli impulsi elettrici, i matrimoni cellulari che li provocano. Indagine meccanicistica sull’amore, profanatorio tentativo di crocifiggere i palpiti del cuore a formule e leggi di pura materia? Ma «sembra che la materia abbia una natura psicologica»: la replica non viene da aridi scienziati riduzionisti, ma dal poeta Goethe, che già sospettò impulsi d’ordine fisico per spiegare l’ineluttabilità delle Affinità elettive . E già Cartesio aveva collocato le passioni nella ghiandola pineale, o epifisi. E, ancora più indietro, già Ippocrate, secoli prima di Cristo, sanciva: «Sappiano gli uomini che dal cervello e solo dal cervello derivano piacere, gioia, riso così come tristezza, pena» e via via fino al pensare e al sentire, i sentimenti tutti. Le citazioni "alte" sono d’obbligo onde stornare l’accusa di violata umanità per chi si avventura nelle neuroscienze a dimostrare che «il corpo è il teatro delle emozioni». Donatella Marazziti, psichiatra e ricercatrice formatasi nella prestigiosa scuola dell’Università di Pisa, si appella in apertura di libro ( La natura dell’amore) anche a un nome più recente, Sandor Màrai, il romanziere ungherese che in un passo lega l’amore a una «volontà... nell’universo» la quale tocca «gli animi e i nervi» e «le menti più lucide».
La dottoressa Marazziti chiarisce subito che per ora di certo non c’è molto. Ma c’è quanto basta per ipotizzare una rete di sottotracce che, passando per amigdala e lobi frontali, ossitocina e serotonina, ippocampo e corteccia, finiscono per delineare il «ritratto» biologico, l’interfaccia corporea, dell’amore cantato dai poeti, analizzato dagli psicologi e, modestamente, provato da tutti noi, o quasi.
«Quasi» perché tra le patologie dell’amore la psichiatra annovera (come gli psicologi, del resto) l’incapacità o la paura di innamorarsi, e qui i maggiori sospetti - oltre che su un vissuto infantile disastroso o traumatica delusione, che costituirebbero l’«interfaccia» emotiva (e psicoanalitica) - cadono su un’amigdala malfunzionante o su una scarsa fornitura di dopamina (il professor Gessa dell’Università di Cagliari, noto ricercatore, ha battezzato questa sostanza chimica «la benzina del desiderio», quella che può far scoccare la «scintilla» dell’innamoramento).
Prove? Indirette. Persone con lesioni al nucleo cerebrale dell’amigdala presentano «cecità affettiva»: caso estremo, un paziente che restò impassibile alla notizia della morte improvvisa di entrambi i genitori. E chi soffre di depressione lamenta spesso la perduta capacità di provare sentimenti: in questi malati alterato e carente è soprattutto il sistema della serotonina, la sostanza o neurotrasmettitore chimico che più influenza l'amigdala. Ripristinata con gli psicofarmaci la corretta biochimica cerebrale, sparisce la depressione e ricompare la capacità d’amare.
«E’ dalle malattie che noi medici e ricercatori scopriamo i meccanismi interni del corpo e ipotizziamo quelli della normalità», spiega Donatella Marazziti, giovane donna graziosa con lunghi capelli biondi. «Sull’amore di sicuro sappiamo che certe patologie rendono incapaci di provarlo, ma accade anche che un innamoramento scateni gravi disturbi in persone fino a quel momento sane. E’ un tale sconquasso, l’amore...», commenta con un sorriso malizioso. Di questo sentimento la studiosa, che ha grande abilità di scrittura, fluida e accattivante, scrive con grande entusiasmo. Un entusiasmo da scienziata (la scienza dice che l’amore è stato inventato dalla natura per garantire la continuità della specie), ma ben colorato da una sensibilità di donna («l’amore è, può essere la più grande, e più rigenerante, gioia della vita»).
Quanto all’innamoramento che può scatenare - anche quando pienamente ricambiato! - disturbi ossessivo-compulsivo, depressivo e altri ancora, la spiegazione, già ipotizzata da Michael Liebowitz nel suo La chimica dell’amore nel 1983, sarebbe questa: l’innamoramento libera di colpo nel cervello un «diluvio» di sostanze simili all’anfetamina. Se quel cervello di quella persona ha una predisposizione a una certa malattia, le strutture già vulnerabili non reggono all’urto di quell’inondazione («anche se gioiosa, è comunque uno stress») ed ecco scatenarsi il disturbo fino allora latente.
Per indirizzarsi verso lo studio biologico dell’amore, che sta continuando in laboratorio («a settimane avrò la risposta se più alti livelli di ossitocina, un peptìde, garantiscono maggior durata della relazione affettiva»), la dottoressa Marazziti è partita da una constatazione di cui arrivò notizia sui giornali e a Quark : «Da innamorati, siamo invasi dal pensiero ossessivo dell’altro, allora mi sono chiesta se a livello biochimico si riscontrino somiglianze con quanti soffrono di disturbo ossessivo. Ho analizzato un certo numero di volontari (studenti, naturalmente) appena innamoratisi e un ugual numero di malati, e ho riscontrato nei due gruppi una analoga riduzione del sistema serotoninergico. Allora, perché non inseguire i possibili meccanismi della normalità in altre aree cerebrali?».
Ma a che scopo? Trovare farmaci per curare l’amore o anche veri filtri per fare innamorare? Oppure, come diranno altri, per spoetizzare il cuore e il sogno e ridurre l’uomo a una macchina? «No, no, come si può togliere poesia al sentimento più bello?», ride la Marazziti. Che, tornando scienziata, aggiunge: «Si pensi a Galileo: il suo cannocchiale, e successivamente i telescopi, hanno forse distrutto l’incanto del cielo stellato? O lo sbarco degli astronauti il fascino misterioso della Luna? No, spiegare la natura non significa diminuire l’uomo, ma permettergli di vivere meglio. Nel caso dell’amore, se arriviamo a capirne la vera realtà biologica, potremo liberarci dalle incrostazioni e deformazioni imposte dalla cultura e dalla società e viverlo nella sua pienezza originaria, prepotentemente naturale e umanissimo».”


Un caro saluto
Alessandra



Cara Alessia,

L'amore è un sentimento attivo, non passivo;
è una conquista, non una resa.


Nel 1956 il grande psicoanalista e sociologo tedesco Erich Fromm (1900-1980) scrisse un libro molto bello sull’amore, L’arte di amare (Mondadori, 1999). Ebbe notevole successo e ancora oggi è uno dei libri più letti su questa tematica. È un testo che ho sempre apprezzato, perché sostiene una cosa che oggi spesso si dimentica, ossia che l’amore non è solo una piacevole sensazione o una felice combinazione tra persone, ma soprattutto, come dice il titolo, è un’arte. La parola arte fa riferimento ad un’attività, come la musica, la danza, la pittura, e dunque, come ogni arte, richiede impegno e saggezza. Sembrano parole insolite per l’amore, ma senza applicazione, equilibrio e discernimento ogni tentativo di amare conduce fatalmente alla delusione ed è destinato alla disfatta.
In realtà l’amore che, come diceva Schopenhauer, “si impadronisce della metà delle forze e dei pensieri dell’umanità più giovane” pervade ogni aspetto della vita (canzoni, film, poesie, racconti), ed è forse per questo che, secondo Erich Fromm, molte persone ritengono che in materia d’amore non vi sia nulla da imparare. “La gente - scrive infatti - non pensa che l'amore non conti. Anzi, ne ha bisogno; corre a vedere una serie interminabile di film d'amore, felice o infelice, ascolta canzoni d'amore; eppure nessuno crede che vi sia qualcosa da imparare in materia d'amore”. Anche in amore, però come in tutte le arti, occorre un processo di apprendimento. Perché l’amore è una conquista, una lenta acquisizione.
Ho pensato di scegliere alcuni aspetti del libro che ci possono aiutare per una riflessione.
A. L’idea di partenza consiste nel ritenere l’amore un sentimento attivo e non passivo;
B. L’autore individua poi alcuni elementi comuni nelle diverse forme d’amore,
C. Infine indica alcune caratteristiche necessarie per la pratica dell’amore.
A.
1. L'amore è un sentimento attivo, non passivo. Secondo l’autore: “la maggior parte della gente ritiene che amore significhi essere amati anziché amare”. Per questo motivo uomini e donne cercano modi diversi per “farsi amare”. Gli uomini ricercano la propria affermazione, il potere, la ricchezza o la posizione sociale; le donne, cercano di rendersi seducenti, affascinanti, curano la bellezza e il modo di vestire. Ma non è così, l’amore è un sentimento attivo (vedremo tra poco).
2. L’amore è una capacità che si sviluppa, non un problema di oggetto.
Si ritiene che amare sia semplice, - dice Fromm - ma che trovare il vero soggetto d'amare o dal qual essere amati sia difficile”. L’autore avverte che talvolta consideriamo le persone un po’ come degli oggetti, ossia verifichiamo se sono desiderabili. “Si è alla ricerca di un oggetto - dice Fromm - e l'oggetto può essere desiderabile da un punto di vista del suo valore sociale e nello stesso tempo può volere me per le mie caratteristiche interiori ed esteriori. Così due persone si innamorano certe di aver trovato sul mercato l'oggetto migliore e più conveniente, considerando i limiti del loro valore di scambio”.
3. C’è differenza tra l’innamoramento iniziale e “lo stato permanente di essere innamorati”.
L’intimità che sorge all’inizio di una relazione, l’affiatamento, la sintonia immediata, gradualmente con il tempo, per la consuetudine, le divergenze, i tempi cominciano a diminuire. Scrive Fromm che molte persone: “scambiano l'intensità dell'infatuazione, il folle amore che li lega, per la prova dell'intensità del loro sentimento, mentre potrebbe solo provare l'intensità della loro solitudine”. Anche l’innamoramento deve essere alimentato.
4. Amare ha a che fare con il dono.
Nella mentalità consumistica spesso pensiamo che dare sia privarsi di qualcosa, cedere qualcosa che ci appartiene e non averlo più. E soprattutto pensiamo che se uno dà deve anche ricevere, altrimenti o si illude o è ingannato. Nella mentalità dell’amore, che prevede un’attività del soggetto, dare è invece un atto di forza e di valore (“la più alta espressione di potenza”). Nell’atto di dare (la gioia, la propria vitalità) uno offre ciò che lo rende vivo e la vitalità stessa riempie di gioia, vita e felicità.
B.
Fromm elenca quattro elementi comuni a tutte le forme di amore:
1. La premura: se una persona dice di amare i fiori e si dimentica di annaffiarli non crediamo nel suo amore per i fiori. Per questo sostiene che “l’amore è interesse attivo per la vita e per la crescita di ciò che amiamo: dove non c'è questo interesse non esiste amore”.
2. La responsabilità: Responsabilità deriva dal verbo respondeo (rispondere) ed è la capacità di rispondere ai bisogni espressi o inespressi di una persona. Sentire che una persona ha dei bisogni e rispondere a quei bisogni significa diventare responsabili. E la responsabilità è una scelta volontaria della persona che, anche qui, implica attività.
3. Il rispetto: Rispetto deriva dalla parola latina respicere (guardare). Quindi rispettare una persona significa saperla vedere per come essa è e desiderare che si sviluppi seguendo i suoi desideri. Rispettare significa non voler ridurre l’altro a me stesso, ma guardare l’alterità dell’altro e prendersi cura di lui.
4. La conoscenza: La conoscenza permette di amare meglio una persona. Chi conosce intimamente l’altro, lo comprende senza distorcere i suoi sentimenti. Solo la persona che conosce intimamente l’altra può comprendere che la rabbia può nascondere l’incertezza; l’ansia, una sofferenza e non collera. La conoscenza permette di comprendere che cosa si cela di fronte alla manifestazione di una emozione.
C.
La pratica dell'arte di amare richiede:
1. Disciplina: Senza disciplina non si costruisce nulla. Gli uomini lavorano per molte ore per scopi che non sono i propri, dunque devono essere disciplinati anche se vogliono realizzare la propria storia d’amore. E la disciplina in questo caso non dura pochi giorni, ma è una disciplina di un’intera vita.
2. Concentrazione: è una pausa dall’iperattività: la concentrazione consente di ascoltare, il silenzio, di osservare. Concentrarsi significa vivere pienamente nel presente, il momento attuale, senza pensare ai prossimi impegni.
3. Pazienza: tutta la nostra vita si basa sulla rapidità; ma le macchine sono fatte per la rapidità, mentre nei rapporti umani serve la pazienza. Il tempo non si acquista con la velocità, ma con la lentezza.
4. Supremo interesse: per diventare maestri in un’arte bisogna dedicare ad essa del tempo. A ciò che è importante dedichiamo del tempo. Se vogliamo migliorare nell’amore dobbiamo considerare l’amore un supremo interesse e dedicare alla persona amata le nostre attenzioni e il nostro tempo.
5. Essere sensibili con se stessi: riuscire a sentire che cosa accade in noi, per non attribuire all’altro i problemi. Riuscire a riconoscere quando si è stanchi o si è arrabbiati per non accusare l’altra persona. È una sensibilità che si acquisisce, è la capacità di sentire cosa avviene dentro di noi, di comprenderne le ragioni invece che di lasciarsi andare.
Concludo con una frase di Fromm: “Basta guardare un bambino che impara a camminare. Cade, si rialza, poi torna a cadere; eppure continua a provare e riprovare, finché un giorno camminerà senza cadere. Che cosa non potrebbe raggiungere la persona adulta, se avesse la pazienza del bambino della sua forza di volontà nel conquistare ciò che per lei è così importante”. L’amore certamente appartiene da una parte alla componente istintiva, è infatti un desiderio che chiede di essere appagato; dall’altra, è un’attività che richiede coraggio, perché senza coraggio subentra la paura e poi la fine della progettualità.

Un caro saluto,
alberto