lunedì 30 novembre 2009

La meccanica quantistica: la più grande rivoluzione di tutti i tempi


"Chi non è attraversato da un senso di vertigine, non può dire di aver capito appieno la meccanica quantistica" (Seth Lloyd "Il programma dell'universo"). E' questo il nome della teoria su cui si fonda la fisica moderna. L'esigenza di tale teoria si è fatta strada nel momento in cui la comunità scientifica, dopo essere ormai pervenuta ai tre consolidati sistemi di leggi ( leggi del moto, leggi dell'elettromagnetismo, leggi della gravità), cercò di spiegare la costituzione microscopica della materia. La teoria dell' elettrone sviluppò l'ipotesi che l'atomo si costituisse di un nucleo pesante, attorno al quale ruotassero vorticosamente gli elettroni.
Quando, tuttavia, si cercò di spiegare il moto degli elettroni attraverso le leggi della meccanica classica teorizzata da Newton, il tentativo si rivelò un netto fallimento: i fenomeni atomici, sottraendosi alle leggi classiche del moto, risultano particolarmente strani. Dunque il senso di vertigine della quantizzazione deriva dal fatto che si tratta di una teoria che va contro le concezioni del senso comune, che sconvolge le più naturali aspettative: in una parola, una teoria "ASSURDA".
Ciononostante, per quanto assurda possa risultare anche alle menti più salde, la meccanica quantistica ben si appresta a spiegare fenomeni quali l'interazioni fra gli atomi (tant'è che per questo elemento è possibile considerare la chimica un aspetto della fisica), l'interazione della luce con la materia ( elettrodinamica quantistica o QED), e tanti altri. Inoltre, la meccanica quantistica è la teoria più precisa conosciuta dall'uomo, in quanto non presenta alcuna significativa discrepanza tra la teoria e gli esperimenti.
Altro aspetto particolare della teoria che segna una vera e propria rottura con la concezione classica è il seguente: se per la fisica classica il suono e la luce hanno comportamneto ondulatorio, per la fisica quantistica essi sono descritti in termini di particelle: ecco che il suono è un insieme di "fononi", la luce un fascio di "fotoni". Tuttavia, se , ad esempio, un fascio di fotoni (ma la stessa cosa vale per un fascio di elettroni, per esempio) viene convogliato verso una lastra a doppia fenditura ( esperimento di Young) continua a mostrare una figura di interferenza, in virtù della natura onda-corpuscolare della luce.
Ma la cosa più sorprendente è che tale dualità (onda-corpuscolo) si applica a tutti i corpi: a qualunque oggetto è associabile un comprtamento ondulatorio. A tal riguardo, l'aspetto che mi sconvolge profondamentesta nel fatto di come l'esperimento della doppia fenditura mostri, in realtà, come una particella non deve necessariemente trovarsi "qui" o "lì" ( nonchè scegliere per quale fenditura passare): grazie alla sua natura ondulatoria, la particella può stare "qui o lì" contemporaneamente (ossia passa contemporaneamente per entrambe le fenditure). "L'ubiquità" della materia è una proprietà ampiamente sfruttata nella computazione quantistica.
Infine, in un altro esperimento, quello della riflessione parziale della luce, su un fascio di 100 fotoni convogliato su una superficie di vetro, solo il 4% di essi viene riflesso: risulta evidente che, in un contesto del genere, la fisica si limita a calcolare la probabilità di un certo evento, in quanto è impossibile, in questo caso specifico, prevedere che cosa faccia il singolo fotone ( cioè se viene riflesso o rifratto).
A questo punto, come è possibile che la fisica, scienza da sempre ritenuta esatta nelle sue previsioni, passi da una concezione deterministica ad una concezione indeterministica, nella quale ogni forma di certezza è soppiantata da realtà probabilistiche?
E per quale motivo, invece, l'ubiquità della materia si manifesta a livello microscopico e non a quello macroscopico?
Paolo


Caro Paolo,
la meccanica quantistica è una scienza così ostica, basata su formule matematiche molto complesse, che non è semplice da spiegare. Tra tutti gli autori e divulgatori che conosco, ti consiglio di leggere qualcosa di Tiziano cantalupi, che ha il pregio di essere più comprensibile rispetto ad altri. Vedi http://web.archive.org/web/20071103180127/http://www.geocities.com/capecanaveral/hangar/6929/Mqfull.html, di cui riporto qui la parte iniziale del contenuto del link:

"LA TEORIA QUANTISTICA : UNA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA E FILOSOFICA PASSATA SOTTO SILENZIO di Tiziano Cantalupi

Le grandi rivoluzioni della scienza sono spesso seguite da sconvolgimenti in campo filosofico e sociale. Le tesi di Copernico, ad esempio, il quale sostenne che la Terra non occupava il centro dell’universo, innescarono un processo di sgretolamento di dogmi religiosi e filosofici che cambiarono profondamente la società europea degli inizi del Rinascimento. La teoria evoluzionistica di Darwin (secoli dopo), con la distruzione della credenza in uno stato biologico speciale degli esseri umani, produsse effetti simili. Le teorie di Einstein infine, con l’affermazione che "tutto è relativo", diedero una spallata definitiva ad un certo modo, "assolutistico", di intendere la scienza e la vita. Con questi presupposti, desta notevole stupore che la più grande rivoluzione scientifica di tutti i tempi sia passata per lo più inosservata agli occhi del grosso pubblico. E questo non già perché le sue implicazioni abbiano scarso interesse, ma perché queste implicazioni sono talmente sconvolgenti da risultare quasi incredibili persino per gli stessi scienziati che le concepirono. La rivoluzione di cui si sta parlando si è consumata, nella sua fase più "cruenta", durante i primi trenta anni del ventesimo secolo ed è conosciuta col nome di Teoria Quantistica o Meccanica Quantistica.

Nata come tentativo di spiegare la fisica delle particelle elementari, la Teoria Quantistica in seguito crebbe sino ad incorporare gran parte della microfisica e parte della macrofisica. Oggi fra alterne vicende può dirsi (nella sua versione ortodossa) universalmente accettata.
Sebbene attualmente nessuno dubiti della sua efficacia pratica ci sono ancora ampie schiere di studiosi che ne mettono in discussione le conseguenze, specie quando queste conseguenze vengono estese alla natura della realtà.

Fondamenti della meccanica quantistica :

- Non esiste una realtà obiettiva della materia, ma solo una realtà di volta in volta creata dalle "osservazioni" dell’uomo.
- Le dinamiche fondamentali del micromondo sono caratterizzate dall'acausalità.
- E’ possibile che, in determinate condizioni, la materia possa "comunicare a distanza" o possa "scaturire" dal nulla.
- Lo stato oggettivo della materia, è caratterizzato da una sovrapposizione di più stati.

La conclusione più sconvolgente che si può trarre da quanto sino ad ora affermato è senza dubbio quella che asserisce che la realtà è tale solo se è presente l’uomo con le sue "osservazioni" ; con i suoi esperimenti. A differenza delle precedenti rivoluzioni scientifiche, le quali avevano confinato l’umanità ai margini dell’universo, la Teoria Quantistica riporta l’uomo ("l’osservatore") al centro della scena. Alcuni eminenti scienziati si sono spinti a ipotizzare che la Teoria dei Quanti abbia perfino risolto l’enigma del rapporto tra Mente e Materia, asserendo che l’introduzione nei processi di misura quantistica dell’osservazione umana è un passo fondamentale per il costruirsi della realtà.

UN GRANDE DIBATTITO

Seppur fortemente avversata sin dal suo apparire (Einstein per manifestare la sua contrarietà arrivò a coniare la frase "Dio non gioca a dadi") la Meccanica Quantistica, è oggi universalmente accettata. Essa, oltre spiegare processi a livello microscopico come la stabilità dell’atomo o processi macroscopici come la superconduttività, ha ottenuto recenti eclatanti conferme sperimentali : si pensi alla diseguaglianza di Bell. Ciononostante il grado di diffidenza nei confronti di questa materia - sempre in bilico tra Fisica e Metafisica - è rimasto (come si diceva anche dianzi) alto. I suoi assunti, al limite dell’assurdo, mettono a dura prova le menti più aperte.
Anche nell’era dei computer superveloci, la Teoria Quantistica più che una scienza "accettata" si caratterizza per una scienza "subita". E sono soprattutto gli studiosi di microfisica, i quali ogni giorno hanno a che fare con i suoi assunti filosofici e con il suo formalismo matematico, che più soffrono questo stato di cose. Recentemente però, una agguerrita schiera di fisici, la cui punta di diamante è rappresentata dall’inglese S.Hawking, è riuscita a rovesciare la situazione, volgendo a loro favore proprio quelle "conseguenze" della Meccanica Quantistica che maggiormente rendevano perplessi i fisici atomici. In questo contesto Hawking crea una vera e propria disciplina scientifica ; la Cosmologia Quantistica, attraverso la quale molti misteri dell’universo trovano una razionale spiegazione. E questo, come detto, partendo proprio dagli assunti quantistici più "rivoluzionari". In questa nuova prospettiva trova coerente giustificazione la nascita della materia dal nulla.
La Fisica del Quanti, in effetti, prevede che in determinate condizioni la materia possa scaturire dal nulla. Questa non è fantascienza, ma scienza nel senso più alto del termine. E qui tornano alla mente le profetiche parole del grande W.Heisenberg quando affermava : "La più strana esperienza di quegli anni [1920 – 1930] fu che i paradossi della Teoria Quantistica non sparirono durante il processo di chiarificazione; al contrario, essi divennero ancora più marcati e più eccitanti ... ".

Sì, "eccitanti", è la parola giusta per definire il ventaglio di possibilità che allora si dischiudeva e che anche oggi può dischiudersi affrontando senza condizionamenti la Teoria dei Quanti.
Una nuova interpretazione del principio quantistico denominato "Probabilismo", ad esempio, deporrebbe a favore del libero arbitrio. Una lettura a trecentosessanta gradi della diseguaglianza di Bell (diseguaglianza che dimostra la possibilità di azioni a distanza) prova che l’universo non può più essere considerato una mera collezione di oggetti, ma una inseparabile rete di modelli di energia vibrante, nei quali nessun componente ha realtà indipendente dal tutto.

IL PROBABILISMO E L’ACAUSALITA’

All’inizio del ventesimo secolo, i fisici ritenevano che tutti i processi dell’universo fossero perfettamente calcolabili purché si avessero a disposizione dati di partenza sufficientemente precisi. Questa filosofia deterministica aveva preso le mosse due secoli prima quando Newton, con la sua legge di gravitazione universale, era riuscito a descrivere le orbite dei pianeti. In un sol colpo lo scienziato inglese aveva dimostrato che una mela che cade da un albero e un corpo celeste che si muove nello spazio, sono governati dalla stessa legge : l’universo ticchettava come un gigantesco orologio perfettamente regolato.
Ma in concomitanza con la fine dell’epoca vittoriana, quella presuntuosa sicurezza svanì ; avvenne nel momento in cui i fisici tentarono di applicare quelle leggi meccanicistiche al comportamento del mondo atomico. In quel minuscolo regno, gli eventi non fluiscono armonicamente e gradualmente con il tempo, ma si modificano in modo brusco e discontinuo. Gli atomi riescono ad assorbire o liberare energia solo in forma di pacchetti discreti chiamati Quanti (da qui il termine Meccanica Quantistica). A questo livello la natura non funziona più come una macchina, ma come un gioco di probabilità. Nei primi decenni del nostro secolo lo scienziato danese Niels Bohr scoprì che le particelle atomiche si comportavano in modo molto meno prevedibile che non gli oggetti ordinari come le matite o le palle da tennis. Le parole "sempre" e "mai", di cui si faceva largo uso per i processi del mondo macroscopico, dovettero essere rimpiazzate dai termini "spesso" e "raramente". Non si poteva dare più nulla per scontato. (continua)”.

Prendiamo, quindi, in esame le domande alla fine della tua lettera. Oggi sappiamo che le leggi fisiche, contrariamente a quanto si credeva, non sono assolute, ma LOCALI ed APPROSSIMATE nel loro ambito. La fisica di Newton vale, in modo sufficientemente approssimato, nella maggior parte delle nostre comuni osservazioni; la relatività di Einstein nelle grandi distanze interplanetarie o galattiche; e la Meccanica Quantistica a livello di particelle subatomiche.
Per quanto riguarda, invece la tua domanda specifica sull’UBIQUITA’, la risposta sta nel fatto sopra richiamato che “ Lo stato oggettivo della materia, è caratterizzato da una sovrapposizione di più stati.”; in questo caso, quello ondulatorio e quello corpuscolare”. In realtà non si tratta di una vera ubiquità, ma del fatto che, come hai ben detto, le particelle si comportano in modo NON DETERMINISTICO, ma PROBABILISTICO; per cui hanno una certa probabilità di essere in un posto ed un’altra probabilità di essere in un posto differente. Se estendiamo il concetto non a una sola particella, ma a un fascio di particelle, come ad esempio fotoni od elettroni che devono attraversare due fessure vicine, alcune particelle passeranno in una ed altre particelle nell’altra (il che equivale ad una natura ondulatoria della materia). Cosa che non si verifica a livello macroscopico.

Per maggiori approfondimenti e chiarimenti sul tema, si può consultare il POST del mio blog parallelo (a più voci):
http://apiuvoci2.blogspot.com/2009/10/la-memoria.html
(Misteri e teorie della meccanica quantistica, del 30 Ottobre 2009)

Un caro saluto,
Alessandra


Caro Paolo,
Abbiamo intitolato questo post: “la meccanica quantistica, la più grande rivoluzione di tutti i tempi”. Il momento della scoperta scientifica, ma soprattutto della sua divulgazione, d’altra parte, è sempre stato un evento straordinario, sensazionale, accompagnato da meraviglia e stupore. Qualche esempio: il 13 marzo 1610 Galileo pubblicò il Sidereus nuncius con una “tiratura” di 550 copie. In meno di una settimana il libro fu introvabile. L’ambasciatore inglese a Venezia, Sir Henry Wotton, il giorno stesso, ne mandò una copia al re Giacomo I e la accompagnò con una lettera in cui scrisse: “la notizia più strana mai ricevuta da nessuna parte della Terra”. Si racconta che Keplero “arrossì per lo stupore e, incapace di trattenere la sua gioia, cominciò a ridere senza ascoltare fino in fondo l’amico che già sulla strada lo informava delle incredibili novità astronomiche”. (Introduzione di Andrea Battistini al Sidereus nuncius, Marsilio, 1993). La fama di Galileo si diffuse rapidamente. Infatti, due anni dopo, l’annuncio delle scoperte celesti arrivò a Mosca e in India e nel 1613 ne venne fatta una sintesi in cinese (Galileo=Chia-Li-Lueh); nel 1631 il cannocchiale venne segnalato in Corea, nel 1638 in Giappone. Mi piace ricordare che Benedetto Castelli, uno degli interlocutori di Galileo nelle lettere copernicane, quando ormai il suo maestro era ormai quasi cieco, utilizzò delle bellissime parole per descrivere gli “occhi” dell’uomo (Galileo) che avevano visto ciò che nessuno prima di lui era riuscito a scorgere. Egli scrisse che l’occhio del suo maestro fu: “occhio tanto privilegiato, e di tanto alte prerogative dotato, che si può dire, e con verità, ch’egli abbia visto più egli solo che tutti gli occhi insieme degli uomini passati, ed abbia aperti quelli de’ futuri, essendo toccato in gran parte a lui solo fare tutti gli scoprimenti celesti ammirandi a’ secoli futuri” (cit. dall’introduzione).
Nel 1686 Newton presentò i suoi Principia alla Royal Society di Londra. Il grande scienziato Ilya Prigogine (Mosca 1917), premio Nobel per la chimica nel 1977, insieme a Isabelle Stengers, nel libro La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza (Einaudi [1981] 1999) scrive che: “Si esagera appena nel dire che il 28 aprile 1686 fu una delle piú grandi date nella storia dell'umanità”. Fu infatti il momento in cui vennero presentate le leggi fondamentali del moto e vennero spiegati concetti che usiamo ancora noi oggi, la massa, l’accelerazione, l’inerzia. Il terzo libro dei Principia di Newton parlava della gravitazione universale. Ilya Progogine dice che “I contemporanei di Newton afferrarono immediatamente l'eminente importanza di questo lavoro. La gravitazione divenne un argomento di conversazione a Londra e a Parigi.”
Per non parlare dello sconcerto che provocò nel secolo scorso al grande pubblico (e delle “perplessità” di alcuni suoi colleghi) la teoria della relatività di Einstein. Ma lo stupore non finisce qui. Altre “notizie più strane mai ricevute da nessuna parte della Terra”, si susseguirono rapidamente. La scienza, che si è sviluppata enormemente e in maniera molto inaspettata negli ultimi secoli, ci ha abituati a rivelazioni straordinarie che superano costantemente la fantasia, e continua quotidianamente a disorientarci nel mostrare la complessità dell’universo e ad aumentare la nostra meraviglia sia per il cosmo sia per la ricerca dell’uomo che sembra inesauribile. Prigogine, d’altra parte, ci ricorda che: “Il nostro orizzonte scientifico si è allargato fino a dimensioni veramente fantastiche. Su scala microscopica la fisica delle particelle elementari studia processi in cui sono in gioco dimensioni fisiche dell'ordine di 10ˉ15 cm e tempi dell'ordine di 10ˉ22 secondi. All'altro estremo, la cosmologia ci mette di fronte a tempi dell'ordine di 10 elevato a 10 anni, la cosiddetta «età dell'Universo». La scienza e la tecnologia sono piú vicine che mai. Le nuove biotecnologie, i progressi nella tecnica dell'informazione, promettono un cambiamento radicale nella vita delle nostre società.”
Sappiamo oggi ad es. che nel campo dell’infinitamente piccolo le leggi della meccanica quantistica hanno preso il posto di quelle della meccanica classica, mentre su scala dell'Universo, la fisica relativista ha sostituito la fisica newtoniana, anche se la fisica di Newton rimane il punto di riferimento per eccellenza, ed è sempre valida sulla nostra scala.
La natura non finisce dunque di stupirci e la scienza è “l’esaltante avventura” che ci permette di avvicinarci alla comprensione di questo mondo e di penetrarne i suoi “segreti”.

un caro saluto,
alberto

lunedì 23 novembre 2009

Identità e cambiamento



L'altro giorno stavo osservando delle foto di famiglia di cui non ero mai stato a conoscenza; alcune di esse erano molto vecchie, e tra queste ho trovato una foto di mia nonna; però una non subito ho capito chi fosse... solo analizzando i tratti somatici e la sua espressione ho successivamente capito che era lei, anche se tuttavia mi sembrava di non conoscere la persona ritratta in quella foto... Subito in me è spuntata una domanda che più volte mi sono posto: è possibile che una persona cambi radicalmente o è valido il proverbio: "il lupo perde il pelo, ma non il vizio"? Sinceramente non ho ancora trovato una risposta a questo quesito, perché proprio nel momento in cui penso che il mio giudizio sia orientato verso uno dei due poli, accade qualcosa che mi riporta a quel bivio mentale e i miei dubbi ricominciano ad imperversare nella mia testa...
Mattia



Caro Mattia,
i metafisici e, a volte, i filosofi del linguaggio e della mente, si pongono queste domande:
"Se le parti di un oggetto sono rimpiazzate una dopo l’altra, in modo che l’oggetto finale sia composto da tutte nuove parti, come nella Nave di Teseo, in che modo i due oggetti sono lo stesso oggetto?"
Vediamo quindi cos’è Il Paradosso della nave di Teseo.
"Questo paradosso esprime la questione metafisica dell'effettiva persistenza dell'identità originaria, per un'entità le cui parti cambiano nel tempo; in altre parole, se un tutto unico rimane davvero se stesso (oppure no) dopo che, col passare del tempo, tutti i suoi pezzi componenti sono cambiati (con altri uguali o simili).
Si narra che la nave in legno sulla quale viaggiò il mitico eroe greco Teseo fosse conservata intatta nel corso degli anni, sostituendone le parti che via via si deterioravano. Giunse quindi un momento in cui tutte le parti usate in origine per costruirla erano state sostituite, benché la nave stessa conservasse esattamente la sua forma originaria.
Ragionando su tale situazione (la nave è stata completamente sostituita, ma allo stesso tempo la nave è rimasta la nave di Teseo), la questione che ci si può porre è: la nave di Teseo si è conservata oppure no? Ovvero: l'entità (la nave), modificata nella sostanza ma senza variazioni nella forma, è ancora proprio la stessa entità? O le somiglia soltanto?
Tale questione si può facilmente applicare a innumerevoli altri casi; per esempio alla scrupolosa conservazione di alcuni antichi templi giapponesi (anch'essi principalmente in legno, come la nave di Teseo), per i quali ci si può domandare se siano ancora templi originali.
Si può anche rivolgere il paradosso riguardo l'identità della nostra stessa persona, che nel corso degli anni cambia ampiamente, sia nella sostanza che la compone sia nella sua forma, ma nonostante ciò sembra rimanere quella stessa persona.
Gente con le idee chiare riguardo alla risposta da dare al paradosso di Teseo sono sicuramente gli shintoisti giapponesi. Infatti il loro tempio più importante, il tempio di Ise, costruito in legno, ogni venti anni viene abbattuto e ricostruito completamente con lo stesso disegno architettonico su un terreno a fianco del precedente. Tale cerimonia è detta shikinen sengu, al fine di ricordare che tutto muore e risorge, ed il tempio da essi è considerato originale ma rinato.

Forse la vera identità si costruisce nel cambiamento, come la vera nave di Teseo che si rinnova con legno nuovo per non affondare.
Nel corso della nostra vita, dall’infanzia sino alla fine dell’esistenza, c’è un nucleo essenziale che permane identico? Com’è possibile se ogni sette anni le nostre cellule si rinnovano completamente? Come è possibile se il nostro corpo cambia? Non mutano forse, con lui, anche i nostri pensieri e il nostro modo di vedere il mondo?
Ci hanno insegnato che l’identità ha origini di tipo genetico, ma si sviluppa anche per imitazione di modelli genitoriali, di sesso, di gruppo di appartenenza, etc.
"

Eric Kandel, nobel del 2000 per la medicina e le neuroscienze, è stato lo scopritore del funzionamento della nostra memoria, che usa le sinapsi tra i neuroni e le funzioni trascrizionali del DNA per trasmetterla in parte ai discendenti. Kandel ha affermato che: IL GOGITO ERGO SUM di cartesiana memoria deve essere aggiornato in:
Io sono quello che sono perché mi ricordo di cosa ho pensato”.
Da qui, per un essere umano, la MEMORIA è il collante che COSTRUISCE il “SE AUTOBIOGRAFICO” e che quindi ci dà la nostra IDENTITA’ (per analogia anche la memoria e la cultura di un popolo ne costituiscono la sua IDENTITA’). Del resto, senza memoria non vi è identità.
La memoria, però, si accresce in continuazione, e a volte dimentica degli episodi, per cui anche la MEMORIA SI EVOLVE (nel cambiamento continuo). Per completezza, bisogna aggiungere, che abbiamo anche altre memorie (Quella del DNA, e quelle registrate in supporti fisici artificiali: libri, internet, etc.).
Lo stesso, per un popolo o un gruppo sociale. Le sue memorie e la sua cultura, in parte, derivano da tradizioni orali, ma anche da scritture nella varie lingue, nelle raffigurazioni e nei simboli.

In conclusione sia per un singolo essere umano, e sia per un popolo o un gruppo sociale, il complesso delle nostre memorie (che si evolvono) ci fornisce la nostra identità.
Infine, ogni DNA di un organismo biologico è unico, ma questo non impedisce che si evolva in continuazione.
Se tutti i nostri ricordi e le nostre informazioni venissero registrate su qualche supporto (ad esempio in uno spazio internet), allora solo dopo la nostra morte biologica, tali ricordi diventerebbero IMMUTABILI e tale diventerebbe la nostra IDENTITA’; ed esiste una nuova teoria filosofica che prevede qualcosa di simile, che non debba essere necessariamente l’anima teorizzata da Platone e Sant’Agostino.

Un caro saluto,
Alessandra


Caro Mattia,
C’è qualcosa che sopravvive al cambiamento, alle più profonde trasformazioni che avvengono dentro di noi nel corso dell’esistenza? Che cosa conserviamo del bambino che eravamo o che cosa conserveremo dell’adolescente che ora siamo nell’età più adulta? E, al termine della vita, dove saranno tutte le varie identità che siamo stati o che abbiamo attraversato? Un importante psicoanalista americano contemporaneo, James Hillman (1926), nel libro La forza del carattere (Adelphi, 2000), ritiene che con il passare dell’età e dopo tutte le irreversibili modifiche a cui va incontro il nostro corpo, in realtà, si riveli sempre più il nostro “carattere”. Più o meno la stessa storia della nave di Teseo è raccontata anche dall’autore con un esempio (un po’ meno elevato di quello mitologico, ma sempre efficace): quello di un paio di calzini. Scrive Hillman: “Prendiamo, per esempio, il nostro paio di calzini di lana preferito. Si fa un buco in un tallone, e noi lo rammendiamo. Poi si fa un buco al posto dell'alluce, e rammendiamo anche quello. Rammenda oggi, rammenda domani, alla fine sono più i rammendi della lana originale e il nostro amato calzino è fatto di una lana completamente diversa. Eppure è sempre lo stesso calzino. In relazione all'aspetto e in relazione al suo compagno infilato nell'altro piede, è sempre lo stesso calzino. I due calzini vanno a spasso insieme, stanno ripiegati insieme nel cassetto; anzi, anche in relazione a se stesso, riguardo alla propria identità, si tratta sempre dello stesso calzino, benché sia diverso.” È cambiata tutta la lana, ma è rimasta la “forma” del calzino. Così avviene anche per il corpo. Dice l’autore: “Il corpo umano è simile al nostro calzino: si scrolla via le sue cellule, ricambia i fluidi, fa fermentare nuove colture di batteri per sostituire quelli morti. Con il passare del tempo, la materia di cui il nostro corpo è fatto diventa tutt'altra, ma noi siamo sempre noi, gli stessi. Non ho un centimetro quadrato di pelle visibile che sia uguale a prima, non un grammo di materia ossea uguale, eppure io non sono qualcun altro”.
Se la differenza tra noi e gli altri fosse definita dalla fisica (Due corpi non possono mai occupare lo stesso spazio nello stesso tempo), dalla logica (A=A, ogni cosa è uguale a se stessa) o dal diritto (tutti gli uomini sono uguali davanti alla legge: ossia ogni individuo ha gli stessi diritti), allora saremmo facilmente interscambiabili. In queste formule è salvaguardata la forma generale, ma non compare ancora l’unicità delle persone. C’è l’individualità, ma mancano le peculiarità specifiche della persona. L’individualità possiamo dire che è la “forma” dell’uguaglianza: ogni individuo è uguale ad un altro dal punto di vista del diritto. Ma l’unicità della persona dipende invece dalle differenze qualitative che formano ciascuno di noi; differenze che si affinano con il tempo. Certamente l’unicità della persona si deve realizzare nel corso di tutta la vita: è come dire che non solo A=A, secondo un principio di identità astratto, ma anche che A =A≠A (Hegel) ossia che A, proprio nella trasformazione, rimane fedele a se stesso. L’identità pertanto non è qualcosa di astratto, ma è legata alla specificità di ognuno di noi; è dunque segnata dai nostri tratti caratteristici e da ciò che ci distingue e ci rende esclusivi.
C’è qualcosa di coerente che si mantiene nel tempo e caratterizza la nostra identità? Pensiamo oggi ai trapianti di organi, agli innesti di vario tipo che già si fanno e che saranno all’ordine del giorno nei decenni futuri. Materiali estranei che entrano a far parte del nostro corpo e che vengono percepiti come qualcosa di noi stessi. Anche se non sempre accade così: il Corriere della Sera, qualche anno fa, riportò un caso famoso di un cinquantenne neozelandese Clint Hallam, operato nel 1998 a Lione da un’équipe di medici internazionali per un trapianto di mano, che poco tempo dopo l’intervento chirurgico rifiutò la nuova mano («Troppo larga per il mio braccio, aveva un colore diverso») e venne pertanto rioperato a Londra nel 2001 (Corriere della sera, 4 febbraio 2001).
Quindi a volte percepiamo ciò che è estraneo come qualcosa che, ormai integrato nel nostro corpo, fa parte di noi stessi, altre volte no. Ciò che viene introdotto nel nostro corpo o nel nostro sistema immunitario può diventare “la mia anca”, “la mia cornea o “il mio cuore” oppure no.
E qui non parliamo ancora della molteplicità di sfumature che viene percepita dagli altri (un po’ come in Uno, nessuno e centomila di Pirandello), ma di quell’identità che percepiamo di noi stessi con il variare del tempo; un’identità data attraverso cambiamenti e trasformazioni. Secondo Hillman, dunque, nel corso del tempo si rivelerebbe sempre più il nostro carattere, una sorta di disposizione, di modo di fare, di inclinazione che modellerebbe anche il nostro volto; come se nella vecchiaia faccia e carattere si amalgamassero maggiormente.
Le diverse psicologie fanno oggi riferimento a diversi concetti per parlare del carattere, ad es. «personalità», «Io», «Sé », «identità», «temperamento», ma secondo Hillman nessuno di questi (un po’ troppo astratti) rende “un insieme di tratti e di qualità, di abitudini e di motivi ricorrenti” della persona. Egli fa dunque riferimento al termine “carattere” (non inteso da un punto di vista religioso o scientifico), cioè alle caratteristiche individuali, all’istinto o all’intelligenza immaginativa di ognuno che rappresentano la tonalità tipica con cui ogni persona si rapporta alle cose e alle persone: “Perché il carattere agisce alla stregua di un istinto sottostante, che sottolinea incisivamente i gesti che facciamo, le parole che diciamo, segnalandone lo stile particolare. È una forza immaginante per cogliere le tracce della quale occorre intelligenza immaginativa. Esiste un sentimento intuitivo che ci impedisce di deviare troppo dalla nostra strada e di oltrepassare troppo i nostri confini coinvolgendoci in mondi estranei alla nostra natura autentica”. Allora, probabilmente, la nonna non ha “perso il pelo”, ma ha semplicemente tracciato la peculiarità della sua unicità, guidata dalla forza del suo carattere. Con questo non voglio che si pensi al carattere in modo deterministico: il vissuto, l’ambiente, la cultura, gli incontri modificano interessi, pensieri e valori. Preferisco pertanto intendere il carattere come quel tratto caratteristico con cui ognuno di noi rende unico quello che fa, la modalità con cui ognuno lascia il proprio tratto personale negli ambiti in cui è impegnato; un tratto che si modifica e si affina in base alle infinite relazioni con il mondo e con gli altri, grazie alle occasioni che via via vengono valutate, scelte o scartate nel corso della vita.

Un caro saluto,
alberto

lunedì 16 novembre 2009

Una vita felice



C'è un interrogativo che mi è nato ultimamente e riguarda il futuro. Sin da più piccola ho sempre pensato di voler studiare, andare all'università e poi trovare un buon lavoro, e una parte di me lo vuole ancora. Crescendo poi, però, mi sono posta un interrogativo e cioè se sia più soddisfacente dedicare una buona vita allo studio e al lavoro, o se invece è più saggio pensare al proprio futuro in un senso più rivolto alla famiglia. Ora come ora la mia soluzione è quella di intraprendere gli studi universitari e poi se possibile trovare un lavoro che mi permetta di conciliare lavoro e famiglia al meglio. La domanda quindi è: “non rischiamo di vivere infelici pensando troppo ai nostri singoli obiettivi, rischiando di perdere le cose belle della vita?”. “Vive più felicemente colui che dedica la propria vita allo studio e al lavoro o chi la dedica alla famiglia?".
Sarah



Cara Sarah,
la biodiversità è sicuramente una carta vincente dell’evoluzione biologica. Non esistono due organismi biologici identici (ogni DNA è unico) e questo fa sì che, anche a livello di percezione della realtà, ognuno la percepisca e la interpreti in modo differente. Noi percepiamo l’ambiente con cui veniamo in contatto con i nostri cinque sensi (qualcuno parla anche di un sesto o settimo senso), tramite “diversi linguaggi” fatti di vibrazioni e di frequenze; e da questi input, interpretiamo e ci costruiamo una nostra realtà che non coincide esattamente con quella degli altri. Sono stati Maturana e Varela, due scienziati sudamericani, ad evidenziare questo aspetto; e da un libro ON LINE di Psicosomatica dell’Università di Torino (http://www.sicap.it/merciai/psicosomatica/badjob/Luca.pdf), che consiglio vivamente di leggere, rileviamo che: “l’accoppiamento strutturale dei sistemi umani avviene all’interno dei domini linguistici, intesi come l’insieme di tutti i comportamenti linguistici di un organismo. È attraverso questa elaborazione dell’accoppiamento strutturale che diviene possibile fare distinzioni e dar forma a vita agli oggetti. Dunque, le osservazioni compiute da un individuo (ogni organismo capace di fare distinzioni è un osservatore) non possono cogliere verità oggettive sul mondo, perché esse sono sempre soltanto interazioni fra la struttura dell’organismo osservatore e il suo medium.
Ciò che per Maturana e Varela diviene importante capire è che la percezione non è e non può mai essere oggettiva, quindi tutte le osservazioni hanno uguale validità, anche gli elefanti rosa che l’alcolista vede nelle sue allucinazioni. Ne consegue che, in quanto essere umani, abitiamo in un Multiverso più che in un universo. Cioè, ognuna delle molteplici distinzioni che creiamo nella nostra interazione strutturale con l’ambiente è assolutamente legittima e non in contraddizione con altre distinzioni tracciate dallo stesso o da un altro sistema vivente.
Gli studi di Maturana e Varela, a detta degli stessi autori, portano con sé un obbligo morale, ossia il ricordarsi sempre che la certezza di un’obiettività e di un’oggettività è una tentazione cui non bisogna indulgere e che quindi il mondo che ciascuno di noi vede non è il mondo ma solo un mondo con cui veniamo a contatto insieme ad altri:
[…] farsi veramente carico della struttura biologica e sociale dell’essere umano […] ammettere che il nostro punto di vista è il risultato di un accoppiamento strutturale in un dominio di esperienza valido tanto quanto quelli del nostro interlocutore, anche se il suo ci appare meno desiderabile. […] guardare l’altro come uno uguale a noi, in un atto che generalmente chiamiamo di amore. [H. Maturana e F. Varela, 1987, pagg. 203-204]”

In parole più semplici, ogni uomo non solo percepisce e si costruisce una realtà diversa, in quanto biologicamente è diverso da tutti gli altri, ma anche il suo bagaglio del DNA e delle sue esperienze sono diversi, per cui ognuno ha una diversa sensibilità alla vasta gamma di emozioni e piaceri di cui parlo nel POST sull’amicizia, che sono quelli che determinano la felicità e la serenità.

Per essere felici (e quindi non perdere le cose belle della vita), non vi sono regole uguali per tutti, ma variano in base a mille fattori personali.

Dal punto di vista della psicoanalisi vi sono degli schemi molto generali:
1) Per essere felici bisogna conoscere cosa si vuole sia a livello conscio sia a livello inconscio e quindi FARLO!
2) Mai si è troppo vecchi o troppo giovani per essere felici.
3) In alternativa, il sogno è lo stato che più ci avvicina alla felicità.

Dal punto di vista delle neuroscienze, invece, segnalo il link:
http://www.repubblica.it/2007/02/sezioni/persone/monaco-felice/monaco-felice/monaco-felice.html
che ti riassumo brevemente: “L'uomo più felice del mondo è un monaco buddista francese, Matthieu Ricard.
Alcuni scienziati dell'università del Wisconsin hanno sottoposto il monaco a una serie di test scientifici arrivando a un responso inequivocabile: Monsieur Ricard può essere considerato "Mr Happy", l'uomo più felice del mondo.

Il gruppo di neuroscienziati dell'ateneo americano, guidati dal professor Richard K. Davidson, ha monitorato l'attività cerebrale del monaco con 256 sensori e una serie di scanning in profondità. La neuro plasticità è la disciplina che studia la strabiliante capacità evolutiva e di adattamento del cervello - misura l'attività della corteccia pre-frontale, perché più alta è l'attività di quella regione della testa e più l'individuo osservato è ritenuto in pace con se stesso e con la realtà. Se i volontari sottoposti a questo esperimento hanno riportato in genere valori tra +0,3 (disperazione) e -0,3 (beatitudine), "Mr. Happy" è arrivato ad uno strabiliante -0,45.

Ma visto che lui è riuscito a raggiungerla, qual è la ricetta per la felicità suggerita dal monaco?
Secondo quanto scritto in un libro pubblicato di recente a Londra, Matthieu Richard - sessanta anni, una brillante carriere di biologo abbandonata per abbracciare il buddismo e ritirarsi in Nepal - la felicità è soprattutto una questione di igiene mentale. L'uomo, infatti, è una creatura malleabile, capace di grandi trasformazioni. Per questo, se riesce a modificare in modo positivo e altruistico il treno dei pensieri, può migliorare la percezione e l'interpretazione del mondo. Felici, insomma, si può diventare. Ma molti non lo sanno: "Molti essere umani - spiega Ricard - vivono come clochard, inconsapevoli del tesoro sepolto sotto la loro baracca".

Come fare, dunque, per essere felici? Molto autocontrollo. Mr Happy non crede infatti assolutamente che dar libero corso alle proprie emozioni intime sia una salutare valvola di sfogo. "Un attimo di rabbia - ammonisce - può distruggere anni di pazienza".

In conclusione, se oggi ti senti di intraprendere gli studi universitari e poi se possibile trovare un lavoro che ti permetta di conciliare lavoro e famiglia al meglio, molto probabilmente per te è la soluzione giusta, ma non è detto che lo sia anche per le altre donne; e, in ogni caso, non trascurare l’altruismo sociale verso coloro che ne hanno bisogno, nei limiti delle tue possibilità, e in un contesto composito delle tue esigenze e di quelle della tua eventuale famiglia.

Un caro saluto
Alessandra



“La vita umana non sarà mai capita, se non
si terrà conto delle sue aspirazioni più alte”.


Cara Sarah,
Verso la metà del secolo scorso lo psicologo statunitense Abraham Maslow ha cercato di studiare la personalità umana e le condizioni della felicità e della realizzazione dell’uomo. Ha così pubblicato un bel libro dal titolo Motivazione e personalità ([1954, 1970], Armando Editore, 2000) in cui propone anche una importante gerarchia di bisogni che le persone devono appagare nella loro esistenza per poter condurre una buona vita. Alla base della piramide, che oggi prende il suo nome (piramide di Maslow), ci sono i bisogni più urgenti, i bisogni fisiologici: (fame, sete, sonno, potersi coprire e ripararsi dal freddo), ossia i bisogni fondamentali, legati alla sopravvivenza. Maslow scrive che “sono i più prepotenti di tutti i bisogni”: Se non vengono appagati questi, tutti gli altri passano in secondo piano. Chi è da un po’ che non mangia, ovviamente, desidera solo il cibo, ecc. Gratificati i bisogni essenziali, si presentano però altri bisogni: i bisogni di sicurezza. Di fronte al mondo e ai pericoli che la vita ci prospetta, le persone hanno bisogno di protezione e tranquillità. Maslow elenca questi bisogni: “sicurezza, stabilità, dipendenza, protezione, libertà dalla paura, dall'ansia, dal caos; bisogno di struttura, di ordine, di legge, di limiti, di un forte protettore”. Ad un gradino più alto troviamo i bisogni di affetto, di amore e di appartenenza: le persone desiderano relazioni d’affetto, sentono il dispiacere per la mancanza di amici e di persone care, avvertono la necessità di sentirsi parte di un gruppo, di appartenere a qualcuno, di essere amati e di amare e di cooperare con altri. Dopo i bisogni di appartenenza vi è il bisogno di stima; anzi, di una doppia stima: quella di una valutazione positiva di se stessi (autostima) e quella di una valutazione positiva da parte degli altri: ogni persona sente infatti il bisogno di avere successo, padronanza, competenze, ma riconosce anche il valore della stima sociale, e dunque sente l’esigenza di essere rispettato, apprezzato, approvato e non solo di sentirsi competente. Però, per quanto tutte queste esigenze siano importanti, le persone hanno un’urgenza più importante: quella di realizzare la propria vita. Pertanto in cima alla scala dei bisogni Maslow pone il bisogno di autorealizzazione. Questo bisogno è l'esigenza di realizzare la propria identità e di portare a compimento le proprie aspettative. Maslow scrive: “attualizzare ciò che è potenziale”, o “diventare tutto ciò che si è capaci di diventare”. Ogni uomo sente dunque l’esigenza di attuare le proprie migliori potenzialità, culturali, affettive e relazionali.
I bisogni, però, sono diversi da persona a persona. Maslow scrive: “in un individuo possono assumere la forma del desiderio di essere una madre ideale, in un altro possono esprimersi atleticamente, in un altro esprimersi nel fare quadri o invenzioni”. Abbiamo il desiderio di conoscere e capire, abbiamo bisogni estetici, ma non tutte le persone hanno le stesse priorità. In alcune persone ad esempio l’autostima è più importante dell’amore; altre persone particolarmente creative sentono invece l’impulso alla creatività più importante di altri, e riescono a realizzarsi anche se ad esempio manca loro il soddisfacimento di bisogni che da altri sono ritenuti fondamentali.
Allora ciò che diventa importante è conoscere i nostri bisogni in un determinato momento e saper distinguere tra le cose a cui attribuiamo più valore e quelle meno indispensabili. Ad esempio sappiamo che alcuni bisogni sono inconsci altri consci e anche che la motivazione cosciente può essere diversa da persona a persona e da cultura a cultura. Talvolta, però, i nostri bisogni sono esigenze che altri si aspettano da noi. Non ogni nostro bisogno è veramente tale; molti desideri che sembrano consentirci di ottenere la felicità sono aspirazioni talvolta della maggioranza delle persone che vivono accanto a noi, del gruppo di appartenenza o di riferimento e che, per abitudine, per desiderio di compiacere, o semplicemente per timore di essere rifiutati, assecondiamo. Ma ci accorgiamo presto che alcuni bisogni importanti non conducono alla nostra felicità e non producono gli effetti sperati. Una persona sana, secondo l’autore, è quella che “è motivata primariamente dal suo bisogno di sviluppare e di attualizzare tutte le sue potenzialità e capacità”. Allora molto dipende dai significati che, di volta in volta, attribuiamo alle cose. Se per noi è indispensabile avere una famiglia, siamo disposti a qualche rinuncia, perché sappiamo che la nostra realizzazione passa attraverso la realizzazione di una vita di coppia con la finalità di abbozzare una nuova famiglia.
Se per noi è importante ottenere un riconoscimento attraverso lo studio o il lavoro ad esempio, siamo disposti a sacrificare molto tempo per ottenere quel risultato. Ma l’urgenza nel soddisfacimento dei bisogni, col tempo, cambia. Ci sono bisogni che un tempo ci sembravano imprescindibili, come imperativi irrinunciabili, di cui gradualmente abbiamo ridimensionato l’importanza; oppure vi sono bisogni che compaiono in tempi più recenti e che in passato avevamo escluso di poter avere. Dico questo perché una persona sana è una persona complessa, che cerca di gestire molti aspetti della sua vita prendendosi cura dei vari aspetti di sé. È vero che spesso le scelte conducono a drastiche alternative, a decisioni risolutive e inconciliabili, ma è anche vero che gli obiettivi non sempre, o non necessariamente, si escludono a vicenda. Una vita sana è una vita di una persona che si prende cura dei vari aspetti di sé, in un lavoro parallelo. Forse è importante mentre si vive prendere in considerazione molti aspetti della vita e non concentrarsi in modo univoco su una cosa. Ossia ci si può dedicare allo studio, coltivando una buona vita di relazione, ampliando i propri interessi e le proprie conoscenze. Ognuno di noi non vive isolato, ma in una serie di rapporti: la scuola, il lavoro, gli amici, gli affetti cari, la famiglia, gli hobbies. La vita ci chiede di fare delle scelte: ci saranno momenti in cui dovremo sacrificare un po’ un aspetto della nostra vita, altre volte un altro. Nel tuo caso, credo che le alternative che presenti (università, famiglia) siano diverse, ma non contraddittorie. Ossia scegliendo la prima (che ti auguro), non annulli la seconda; decidi solo provvisoriamente di rinviarla. Nel frattempo vivi intensamente le relazioni interpersonali, offri la tua vitalità e le tue energie alle persone che incontri; la forza della relazione ti aiuterà anche a reggere l’impegno dei tuoi studi. È possibile che tra le amicizie con i tuoi compagni attuali o futuri e con altre persone che via via conoscerai, maturerai una legame bello e profondo a cui potrai dedicare anche più tempo. “L'auto-realizzazione, diceva Maslow, è priva di significato se non ci si riferisce ad un futuro attivo in ogni momento”(Verso una psicologia dell'essere, Ubaldini 1971).

Un caro saluto,
Alberto

lunedì 9 novembre 2009

La passione d'amore



A volte mi capita di non riuscire a capire, a definire quello che provo per le persone a cui tengo, e come si fa a stabilire con certezza il punto in cui non si tratta solo più di affetto o di una profonda amicizia, ma di qualcosa di più. Sono quasi quattro anni che trascorro la maggior parte delle mie giornate con una persona di cui mi accorgo di non poter più fare a meno: ridiamo, parliamo, ci raccontiamo i nostri problemi e le nostre esperienze, siamo complici in tutto. Spesso, manifestandogli il mio affetto, mi sono chiesta se i sentimenti che provo per lui non siano quelli che si hanno verso un semplice compagno di scuola o vanno oltre e quello che ci lega sia qualcosa di più profondo. L'unica cosa di cui sono sicura è che non c'è momento della giornata in cui non sia nei miei pensieri: per me è un punto di riferimento, una certezza sulla quale so di poter contare costantemente: ho sempre bisogno della sua presenza, ma anche della sua approvazione in ogni mia scelta. Non posso dire di essergli amica, ma allo stesso tempo nemmeno di essere innamorata, al contrario di lui: è forse proprio il fatto che mi manifesti così apertamente i suoi sentimenti che rende così difficile definire i miei e quale sia il confine tra amicizia e amore; si escludono a vicenda o si possono considerare l'uno il punto di partenza dell'altro?
Ogni riferimento a persone e/o cose è puramente casuale!!!

Alessia



Cara Alessia,
la tua domanda mi ha fatto ricordare un bellissimo articolo del corriere della sera del 2002, in cui la giornalista Serena Zoli presentava un libro di Donatella Marazziti, psichiatra e ricercatrice. Il libro si chiama “La natura dell’amore”, che ti consiglio di acquistare.
“Si dice che dell’amore si è detto tutto, eppure queste sono parole nuove. Non ancora un discorso, ma frammenti, balbettii, di un inedito discorso amoroso che, se anch’esso parte da batticuore ed estasi, è per cercare gli amplessi chimici, gli impulsi elettrici, i matrimoni cellulari che li provocano. Indagine meccanicistica sull’amore, profanatorio tentativo di crocifiggere i palpiti del cuore a formule e leggi di pura materia? Ma «sembra che la materia abbia una natura psicologica»: la replica non viene da aridi scienziati riduzionisti, ma dal poeta Goethe, che già sospettò impulsi d’ordine fisico per spiegare l’ineluttabilità delle Affinità elettive . E già Cartesio aveva collocato le passioni nella ghiandola pineale, o epifisi. E, ancora più indietro, già Ippocrate, secoli prima di Cristo, sanciva: «Sappiano gli uomini che dal cervello e solo dal cervello derivano piacere, gioia, riso così come tristezza, pena» e via via fino al pensare e al sentire, i sentimenti tutti. Le citazioni "alte" sono d’obbligo onde stornare l’accusa di violata umanità per chi si avventura nelle neuroscienze a dimostrare che «il corpo è il teatro delle emozioni». Donatella Marazziti, psichiatra e ricercatrice formatasi nella prestigiosa scuola dell’Università di Pisa, si appella in apertura di libro ( La natura dell’amore) anche a un nome più recente, Sandor Màrai, il romanziere ungherese che in un passo lega l’amore a una «volontà... nell’universo» la quale tocca «gli animi e i nervi» e «le menti più lucide».
La dottoressa Marazziti chiarisce subito che per ora di certo non c’è molto. Ma c’è quanto basta per ipotizzare una rete di sottotracce che, passando per amigdala e lobi frontali, ossitocina e serotonina, ippocampo e corteccia, finiscono per delineare il «ritratto» biologico, l’interfaccia corporea, dell’amore cantato dai poeti, analizzato dagli psicologi e, modestamente, provato da tutti noi, o quasi.
«Quasi» perché tra le patologie dell’amore la psichiatra annovera (come gli psicologi, del resto) l’incapacità o la paura di innamorarsi, e qui i maggiori sospetti - oltre che su un vissuto infantile disastroso o traumatica delusione, che costituirebbero l’«interfaccia» emotiva (e psicoanalitica) - cadono su un’amigdala malfunzionante o su una scarsa fornitura di dopamina (il professor Gessa dell’Università di Cagliari, noto ricercatore, ha battezzato questa sostanza chimica «la benzina del desiderio», quella che può far scoccare la «scintilla» dell’innamoramento).
Prove? Indirette. Persone con lesioni al nucleo cerebrale dell’amigdala presentano «cecità affettiva»: caso estremo, un paziente che restò impassibile alla notizia della morte improvvisa di entrambi i genitori. E chi soffre di depressione lamenta spesso la perduta capacità di provare sentimenti: in questi malati alterato e carente è soprattutto il sistema della serotonina, la sostanza o neurotrasmettitore chimico che più influenza l'amigdala. Ripristinata con gli psicofarmaci la corretta biochimica cerebrale, sparisce la depressione e ricompare la capacità d’amare.
«E’ dalle malattie che noi medici e ricercatori scopriamo i meccanismi interni del corpo e ipotizziamo quelli della normalità», spiega Donatella Marazziti, giovane donna graziosa con lunghi capelli biondi. «Sull’amore di sicuro sappiamo che certe patologie rendono incapaci di provarlo, ma accade anche che un innamoramento scateni gravi disturbi in persone fino a quel momento sane. E’ un tale sconquasso, l’amore...», commenta con un sorriso malizioso. Di questo sentimento la studiosa, che ha grande abilità di scrittura, fluida e accattivante, scrive con grande entusiasmo. Un entusiasmo da scienziata (la scienza dice che l’amore è stato inventato dalla natura per garantire la continuità della specie), ma ben colorato da una sensibilità di donna («l’amore è, può essere la più grande, e più rigenerante, gioia della vita»).
Quanto all’innamoramento che può scatenare - anche quando pienamente ricambiato! - disturbi ossessivo-compulsivo, depressivo e altri ancora, la spiegazione, già ipotizzata da Michael Liebowitz nel suo La chimica dell’amore nel 1983, sarebbe questa: l’innamoramento libera di colpo nel cervello un «diluvio» di sostanze simili all’anfetamina. Se quel cervello di quella persona ha una predisposizione a una certa malattia, le strutture già vulnerabili non reggono all’urto di quell’inondazione («anche se gioiosa, è comunque uno stress») ed ecco scatenarsi il disturbo fino allora latente.
Per indirizzarsi verso lo studio biologico dell’amore, che sta continuando in laboratorio («a settimane avrò la risposta se più alti livelli di ossitocina, un peptìde, garantiscono maggior durata della relazione affettiva»), la dottoressa Marazziti è partita da una constatazione di cui arrivò notizia sui giornali e a Quark : «Da innamorati, siamo invasi dal pensiero ossessivo dell’altro, allora mi sono chiesta se a livello biochimico si riscontrino somiglianze con quanti soffrono di disturbo ossessivo. Ho analizzato un certo numero di volontari (studenti, naturalmente) appena innamoratisi e un ugual numero di malati, e ho riscontrato nei due gruppi una analoga riduzione del sistema serotoninergico. Allora, perché non inseguire i possibili meccanismi della normalità in altre aree cerebrali?».
Ma a che scopo? Trovare farmaci per curare l’amore o anche veri filtri per fare innamorare? Oppure, come diranno altri, per spoetizzare il cuore e il sogno e ridurre l’uomo a una macchina? «No, no, come si può togliere poesia al sentimento più bello?», ride la Marazziti. Che, tornando scienziata, aggiunge: «Si pensi a Galileo: il suo cannocchiale, e successivamente i telescopi, hanno forse distrutto l’incanto del cielo stellato? O lo sbarco degli astronauti il fascino misterioso della Luna? No, spiegare la natura non significa diminuire l’uomo, ma permettergli di vivere meglio. Nel caso dell’amore, se arriviamo a capirne la vera realtà biologica, potremo liberarci dalle incrostazioni e deformazioni imposte dalla cultura e dalla società e viverlo nella sua pienezza originaria, prepotentemente naturale e umanissimo».”


Un caro saluto
Alessandra



Cara Alessia,

L'amore è un sentimento attivo, non passivo;
è una conquista, non una resa.


Nel 1956 il grande psicoanalista e sociologo tedesco Erich Fromm (1900-1980) scrisse un libro molto bello sull’amore, L’arte di amare (Mondadori, 1999). Ebbe notevole successo e ancora oggi è uno dei libri più letti su questa tematica. È un testo che ho sempre apprezzato, perché sostiene una cosa che oggi spesso si dimentica, ossia che l’amore non è solo una piacevole sensazione o una felice combinazione tra persone, ma soprattutto, come dice il titolo, è un’arte. La parola arte fa riferimento ad un’attività, come la musica, la danza, la pittura, e dunque, come ogni arte, richiede impegno e saggezza. Sembrano parole insolite per l’amore, ma senza applicazione, equilibrio e discernimento ogni tentativo di amare conduce fatalmente alla delusione ed è destinato alla disfatta.
In realtà l’amore che, come diceva Schopenhauer, “si impadronisce della metà delle forze e dei pensieri dell’umanità più giovane” pervade ogni aspetto della vita (canzoni, film, poesie, racconti), ed è forse per questo che, secondo Erich Fromm, molte persone ritengono che in materia d’amore non vi sia nulla da imparare. “La gente - scrive infatti - non pensa che l'amore non conti. Anzi, ne ha bisogno; corre a vedere una serie interminabile di film d'amore, felice o infelice, ascolta canzoni d'amore; eppure nessuno crede che vi sia qualcosa da imparare in materia d'amore”. Anche in amore, però come in tutte le arti, occorre un processo di apprendimento. Perché l’amore è una conquista, una lenta acquisizione.
Ho pensato di scegliere alcuni aspetti del libro che ci possono aiutare per una riflessione.
A. L’idea di partenza consiste nel ritenere l’amore un sentimento attivo e non passivo;
B. L’autore individua poi alcuni elementi comuni nelle diverse forme d’amore,
C. Infine indica alcune caratteristiche necessarie per la pratica dell’amore.
A.
1. L'amore è un sentimento attivo, non passivo. Secondo l’autore: “la maggior parte della gente ritiene che amore significhi essere amati anziché amare”. Per questo motivo uomini e donne cercano modi diversi per “farsi amare”. Gli uomini ricercano la propria affermazione, il potere, la ricchezza o la posizione sociale; le donne, cercano di rendersi seducenti, affascinanti, curano la bellezza e il modo di vestire. Ma non è così, l’amore è un sentimento attivo (vedremo tra poco).
2. L’amore è una capacità che si sviluppa, non un problema di oggetto.
Si ritiene che amare sia semplice, - dice Fromm - ma che trovare il vero soggetto d'amare o dal qual essere amati sia difficile”. L’autore avverte che talvolta consideriamo le persone un po’ come degli oggetti, ossia verifichiamo se sono desiderabili. “Si è alla ricerca di un oggetto - dice Fromm - e l'oggetto può essere desiderabile da un punto di vista del suo valore sociale e nello stesso tempo può volere me per le mie caratteristiche interiori ed esteriori. Così due persone si innamorano certe di aver trovato sul mercato l'oggetto migliore e più conveniente, considerando i limiti del loro valore di scambio”.
3. C’è differenza tra l’innamoramento iniziale e “lo stato permanente di essere innamorati”.
L’intimità che sorge all’inizio di una relazione, l’affiatamento, la sintonia immediata, gradualmente con il tempo, per la consuetudine, le divergenze, i tempi cominciano a diminuire. Scrive Fromm che molte persone: “scambiano l'intensità dell'infatuazione, il folle amore che li lega, per la prova dell'intensità del loro sentimento, mentre potrebbe solo provare l'intensità della loro solitudine”. Anche l’innamoramento deve essere alimentato.
4. Amare ha a che fare con il dono.
Nella mentalità consumistica spesso pensiamo che dare sia privarsi di qualcosa, cedere qualcosa che ci appartiene e non averlo più. E soprattutto pensiamo che se uno dà deve anche ricevere, altrimenti o si illude o è ingannato. Nella mentalità dell’amore, che prevede un’attività del soggetto, dare è invece un atto di forza e di valore (“la più alta espressione di potenza”). Nell’atto di dare (la gioia, la propria vitalità) uno offre ciò che lo rende vivo e la vitalità stessa riempie di gioia, vita e felicità.
B.
Fromm elenca quattro elementi comuni a tutte le forme di amore:
1. La premura: se una persona dice di amare i fiori e si dimentica di annaffiarli non crediamo nel suo amore per i fiori. Per questo sostiene che “l’amore è interesse attivo per la vita e per la crescita di ciò che amiamo: dove non c'è questo interesse non esiste amore”.
2. La responsabilità: Responsabilità deriva dal verbo respondeo (rispondere) ed è la capacità di rispondere ai bisogni espressi o inespressi di una persona. Sentire che una persona ha dei bisogni e rispondere a quei bisogni significa diventare responsabili. E la responsabilità è una scelta volontaria della persona che, anche qui, implica attività.
3. Il rispetto: Rispetto deriva dalla parola latina respicere (guardare). Quindi rispettare una persona significa saperla vedere per come essa è e desiderare che si sviluppi seguendo i suoi desideri. Rispettare significa non voler ridurre l’altro a me stesso, ma guardare l’alterità dell’altro e prendersi cura di lui.
4. La conoscenza: La conoscenza permette di amare meglio una persona. Chi conosce intimamente l’altro, lo comprende senza distorcere i suoi sentimenti. Solo la persona che conosce intimamente l’altra può comprendere che la rabbia può nascondere l’incertezza; l’ansia, una sofferenza e non collera. La conoscenza permette di comprendere che cosa si cela di fronte alla manifestazione di una emozione.
C.
La pratica dell'arte di amare richiede:
1. Disciplina: Senza disciplina non si costruisce nulla. Gli uomini lavorano per molte ore per scopi che non sono i propri, dunque devono essere disciplinati anche se vogliono realizzare la propria storia d’amore. E la disciplina in questo caso non dura pochi giorni, ma è una disciplina di un’intera vita.
2. Concentrazione: è una pausa dall’iperattività: la concentrazione consente di ascoltare, il silenzio, di osservare. Concentrarsi significa vivere pienamente nel presente, il momento attuale, senza pensare ai prossimi impegni.
3. Pazienza: tutta la nostra vita si basa sulla rapidità; ma le macchine sono fatte per la rapidità, mentre nei rapporti umani serve la pazienza. Il tempo non si acquista con la velocità, ma con la lentezza.
4. Supremo interesse: per diventare maestri in un’arte bisogna dedicare ad essa del tempo. A ciò che è importante dedichiamo del tempo. Se vogliamo migliorare nell’amore dobbiamo considerare l’amore un supremo interesse e dedicare alla persona amata le nostre attenzioni e il nostro tempo.
5. Essere sensibili con se stessi: riuscire a sentire che cosa accade in noi, per non attribuire all’altro i problemi. Riuscire a riconoscere quando si è stanchi o si è arrabbiati per non accusare l’altra persona. È una sensibilità che si acquisisce, è la capacità di sentire cosa avviene dentro di noi, di comprenderne le ragioni invece che di lasciarsi andare.
Concludo con una frase di Fromm: “Basta guardare un bambino che impara a camminare. Cade, si rialza, poi torna a cadere; eppure continua a provare e riprovare, finché un giorno camminerà senza cadere. Che cosa non potrebbe raggiungere la persona adulta, se avesse la pazienza del bambino della sua forza di volontà nel conquistare ciò che per lei è così importante”. L’amore certamente appartiene da una parte alla componente istintiva, è infatti un desiderio che chiede di essere appagato; dall’altra, è un’attività che richiede coraggio, perché senza coraggio subentra la paura e poi la fine della progettualità.

Un caro saluto,
alberto

lunedì 2 novembre 2009

Mi sono accorto di essere innamorato



Che cos'è l'amore? Questa è una domanda a cui è molto difficile rispondere e penso che molte persone rimarrebbero spiazzate di fronte a questo quesito. Sul vocabolario alla voce " amore " si legge: "affetto intenso, assiduo, fortemente radicato per qualcuno ". Secondo me, però, non esiste una vera e propria definizione della parola " amore ", perché ognuno di noi ha una diversa concezione di questo particolare sentimento. Se dovessi dare io una definizione di " amore ", direi che si tratta di un sentimento di affetto verso qualcuno che si manifesta in maniera diversa da persona a persona. Tale sentimento può essere provato verso i propri genitori e parenti, ma in questa lettera vorrei analizzare l'amore che riguarda l'attrazione per una persona del sesso opposto. Io penso di essermi innamorato veramente una volta sola nella vita, ed è successo quest'estate mentre ero al mare con i miei amici; e mi sono accorto che stava accadendo dentro di me qualcosa di strano, di inspiegabile e che, tutto ciò era causato dalla mia amica in vacanza con noi. Non avevo mai provato una tale sensazione prima di allora, ero felice, euforico, il cuore mi batteva forte quando lei si avvicinava, diventavo rosso, spesso facevo fatica a parlare insieme a lei e la notte non riuscivo a dormire. A poco a poco mi sono accorto di essermi innamorato e ho cominciato a chiedermi cosa potevo fare perché lei si accorgesse di me, ripromettendomi migliaia di volte che alla prima occasione le avrei rivelato i miei sentimenti, ma al momento opportuno mi mancava sempre il coraggio, non so bene per quale motivo, ma non ce la facevo proprio a confessarmi. Mi sono chiesto spesso perché ogni volta le parole che mi ero preparato e che avrei voluto dirle mi rimanevano bloccate in gola. Forse avevo paura che mi rifiutasse, della derisione dei miei amici se fossero venuti a saperlo, o forse era solo il coraggio a mancarmi, ma fatto sta che, rimandando rimandando, sono arrivato fino a oggi e la situazione non è cambiata di una virgola, e so che continuando così non cambierà mai e, se devo essere sincero, la cosa mi fa stare molto male. Devo dire che scrivere questa lettera mi è costato molto, perché non sono abituato a scrivere i " fatti miei " su un pezzo di carta, e provo anche un certo imbarazzo pensando che un'altra persona leggerà ciò che ho appena scritto. Molto probabilmente penserà che sono un debole e un immaturo, ma purtroppo sono fatto così e anche se sto cercando di cambiare in tutti i modi non ce la faccio proprio a modificare il mio carattere. Non so bene come concludere la lettera perché non ho vere e proprie domande da porre e molto probabilmente quello che ho scritto non è nemmeno un granché, ma se devo dire la verità, già solo scrivere queste tre pagine di foglio protocollo è stata un'impresa per me molto più impegnativa che studiare filosofia o storia e non avrei mai pensato che fosse così difficile. Grazie!
Simone



Caro Simone,
L'amore è un sentimento intenso e totalizzante rivolto verso una persona, un animale, un oggetto, o verso un concetto, un ideale. Nel post precedente, abbiamo trattato il sentimento dell’amicizia, in special modo dal punto di vista neuro scientifico di Antonio Damasio, che ha studiato il contributo delle emozioni e dei sentimenti alla strutturazione del nostro sé. Per lui, le «emozioni» (per esempio il piacere, il dolore, il disgusto e la paura) sono risposte involontarie, e in qualche caso innate, che compaiono precocemente nella vita dell’organismo insieme agli appetiti. I «sentimenti», invece, sono mappe e immagini con le quali il cervello rappresenta le proprie risposte agli stimoli emozionali e sensoriali, esterni e interni. Tanto le emozioni quanto i sentimenti sono componenti inseparabili del nostro modo di accogliere la realtà, compreso il modo in cui pensiamo.
La visione di Damasio, oggi, è quasi una conferma di una parte del pensiero di Schopenhauer. Per quest’ultimo la coscienza è "destinata in origine al servizio della volontà e alla realizzazione dei suoi disegni", ossia è al servizio dell'inconscio. E' l'inconscio la causa vera del comportamento, mentre le motivazioni coscienti sono ridotte ad un ruolo subordinato, che mascherano le reali cause dell'agire, che non appartengono al piano della coscienza. Ad esempio, la sessualità, che per Schopenhauer è dettata dall'impulso di autorealizzazione della volontà, benchè sia orientata verso la riproduzione della specie, tuttavia si ammanta di tutta una serie di motivi che tendono a nobilitarla e a spiritualizzarla. L'amore romantico è dunque una maschera, dietro la quale opera il freddo genio della specie. “Ogni innamoramento, per quanto etereo voglia apparire, affonda sempre le sue radici nell'istinto sessuale e l’uomo vede nella bellezza della donna il miglioramento della specie”.
Come l'amore sessuale è un MEZZO, sperimentato dall’evoluzione biologica, per ottenere la riproduzione, l'amore materno è un MEZZO per ottenere la cura della prole, l'innamoramento è un MEZZO per stabilizzare le coppie per permettere la trasmissione del linguaggio e della cultura (qualità umana che non si riscontra in nessun altro essere vivente).
Nel post precedente abbiamo visto, anche, che le emozioni precedono i sentimenti, perché si sono evoluti prima; ma in certi casi i sentimenti (come l’amore) generano, a loro volta, altre emozioni. Da queste emozioni deriva quanto esposto nella tua lettera, ovvero rossore, balbettamenti, dubbi, esitazioni, paure, sensazione di sentirsi il cuore in gola, soffocamenti, ansie, sogni, desideri, tristezza alternata ad euforia, etc.. Sensazioni ed emozioni, che ti assicurano capitano, quasi, a tutti, specialmente in occasione del primo amore.
Dal punto di vista della psicologia, (vedi wikipedia), “pur essendoci dei caratteri comuni, la maggior parte delle reazioni o delle pulsioni amorose sono soggettive e variano da individuo a individuo; tuttavia ci sarebbero, secondo la maggior parte degli psicologi e degli scienziati, tre fasi principali nell'amore fra esseri umani: infatuazione o (Innamoramento), attrazione e attaccamento, composte da vari elementi e stadi.
Generalmente, l'amore comincia nella fase dell'"infatuazione", forte nella passione ma debole negli altri elementi. Il primo sprone di questa fase sarebbe l'istinto sessuale. L'aspetto fisico e altri fattori giocherebbero infatti un ruolo decisivo nel selezionare possibili compagni o compagne. In questa fase l’amore è puramente materiale: si apprezza il/la compagno/a nella sua apparenza corporea, nella sua pura esteriorità. Quello che inizia con l'infatuazione può svilupparsi in uno dei tipi d'amore più pieni.
Con il passare del tempo gli altri elementi (affetto, attaccamento) possono crescere e la passione fisica può diminuire d'importanza, mantenendo però quell'equilibrio alla base della relazione. In questa fase, detta "attrazione", si giudica il partner al di là di come appare, si valutano diversi fattori come la sua cultura, i suoi valori. In questa fase, quindi, si apprezza il/la compagno/a nella sua pura interiorità.
Nella fase dell'"attaccamento", la persona si concentra sul singolo compagno e la fedeltà assume importanza. Ormai si apprezza il/la compagno/a in sé e per sé, in modo pieno e totale, forti delle due fasi precedenti ma ora consapevoli di tutto il proprio percorso interiore. Ora non si amano più caratteristiche determinate, siano esse materiali o spirituali, ma l’uomo/la donna in quanto tali.
Sebbene gli esseri umani non siano in genere sessualmente monogami, si ritiene tuttavia che siano emozionalmente monogami: possono amare (romanticamente) una sola persona alla volta. Quando una persona condivide con un'altra un amore per un lungo periodo di tempo, sviluppa un "attaccamento" sempre più forte verso l'altro individuo.
Per quanto riguarda l'eventuale presenza di figli, secondo altre recenti teorie scientifiche sull'amore, questa transizione dall'attrazione all'attaccamento avverrebbe in circa 30 mesi: il tempo di portare a termine una gravidanza e di curare la prima infanzia del bambino. Dopo questo periodo la passione diminuirebbe, cambiando l'amore da amore romantico a un semplice piacere nello stare insieme. Quest'ultima fase durerebbe dai 10 ai 15 anni: finché la prole ha raggiunto l'adolescenza o più tardi (con variazioni considerevoli da cultura a cultura)”.

Di solito una relazione che si basa su più fattori (affetto, attaccamento, stima, interessi comuni, attrazione sessuale) ha più possibilità di riuscita di una basata sulla sola attrazione sessuale. Questo "determinismo dell'amore", funzionale unicamente alla cura del bambino, è stato criticato da più parti, in particolare dai sostenitori dell'intelligenza emotiva.
L'amore e la paura di perdere la persona o la cosa amata, accompagnano spesso un sentimento di protezione e/o gelosia verso l'oggetto di tale sentimento. In taluni casi l'amore assume aspetti patologici, quando è la causa che impedisce la conduzione di una vita normale o l'elemento scatenante di un attaccamento morboso.
Un caro saluto
Alessandra


Caro Simone,
hai scritto una lettera molto bella e personale. Quando l’ho letta, ho pensato che potevo unirmi a te e aggiungere altre pagine alla tua storia, perché mi ha ricordato un po’ anche la mia. Anch’io alla tua età mi sono sentito debole o immaturo, ho avuto paura di perdere la persona che amavo e ho balbettato, come è accaduto a te. Anch’io ho temuto di essere rifiutato e ho rinunciato a qualche occasione, lasciando passare il tempo. E credo che, talvolta, sia stato più facile anche per me studiare filosofia e storia.
D’altra parte l’innamoramento sfugge al nostro controllo e ricorderai che l’unico modo che nella storia gli uomini hanno inventato per padroneggiarlo è stato attraverso la creazione di filtri d’amore. L’elisir d’amore scombina le carte nella vicenda di Tristano e Isotta, e anche in quella, forse meno conosciuta, di Nemorino e Adina musicata da Gaetano Donizzetti. È una bella e divertente storia d’amore in cui il grande mago Dulcamara predispone i suoi potenti e ingegnosi incantesimi d’amore. In queste vicende, bellissime, l’innamoramento può essere indotto da un mezzo esterno (magari una bottiglia di buon vino), dunque incanalato, orientato e controllato. Ma non è così.
Secondo Antonio Damasio (l’autore che ha citato nella lettera precedente Alessandra), l’idea che esistano alcune molecole che agiscono su particolari neuroni e producono il risultato sospirato: “Dal punto di vista dei meccanismi neurobiologici, […] suona come una specie di gioco di prestigio. Tristano e Isotta bevono il filtro d'amore, et voilà!, nella scena successiva sono innamorati”. Secondo questo studioso: “I meccanismi molecolari attivati dall'introduzione di un farmaco nel sistema rendono conto della catena di processi che porta all'alterazione del sentimento, ma NON DEI PROCESSI CHE ALLA FINE STABILISCONO IL SENTIMENTO STESSO” (Alla ricerca di Spinoza, Adelphi [2003] 2007).
Quindi occorrerà indagare i processi che costituiscono il sentimento. Così la pensava anche Freud che, nell’Introduzione alla psicoanalisi, un po’ scherzando, scriveva: “L'anima popolare […]chiama l'amore una «ebbrezza» e fa nascere l'innamoramento per opera di filtri amorosi, spostandone in certo qual modo verso l'esterno la sostanza agente” (Introduzione alla psicoanalisi, 1915-1917). Già, perché la “sostanza agente” non sta all’esterno, ma all’interno di noi.
Schopenhauer avrebbe detto che noi siamo agiti da due soggettività, una di cui siamo consapevoli (diciamo quella della mente e dei nostri progetti consapevoli) e una più potente di cui non siamo coscienti e che rappresenta le ragioni del nostro corpo. Di solito ci accorgiamo della soggettività del corpo quando proviamo piacere o dolore. In queste occasioni sentiamo fortemente di avere un corpo (o di essere un corpo). Riprendendo questa linea, un importante psicoanalista italiano, Aldo Carotenuto (1933-2005), dice che: “C'è un momento nella vita in cui ci accorgiamo di essere fatti di carne e qualcuno dice che in fondo essa si fa sentire soprattutto attraverso il dolore, ma io voglio riferirmi a un'esperienza diversa, vale a dire al fenomeno di riscoprire il proprio corpo attraverso il desiderio e questo non si limita a oggettivarci, ma attua, ogni volta e di nuovo, la rivelazione della nostra corporeità” (Eros e Pathos, 1987).
Nel desiderio, e dunque nell’esperienza dell’innamoramento, si rivela la nostra corporeità. Viviamo un’esperienza unica: psicologica, fisica ed esistenziale. Sentiamo che tutte le sicurezze vengono meno, ci sentiamo vulnerabili, fragili, confusi. Sentiamo che dentro di noi sta avvenendo una trasformazione e temiamo di non poter controllare ciò che avviene. Si frantumano le nostre difese culturali e psicologiche. Sentiamo che la contraddizione e l’ambivalenza fanno parte di noi, ci rendiamo conto che siamo precipitati in una situazione oscura, indefinibile; constatiamo che le parole non sono sufficienti ad esprimere la metamorfosi che avviene dentro di noi, e che la ragione viene meno. Sperimentiamo che non siamo autonomi e non possediamo noi stessi. Perdiamo infatti ogni equilibrio consolidato e provvisoriamente raggiunto. Carotenuto scrive che nell’innamoramento si assiste alla “rottura violenta del proprio nucleo difensivo narcisistico: il soggetto è strappato dalla sua solitudine per tornare a essere in contatto con aspetti vitali di se stesso, fino ad allora rimossi”. Questa condizione che ci priva improvvisamente dell’equilibrio psichico e mette a soqquadro quello esistenziale, è tuttavia una condizione fondamentale, perché ci dispone ad una nuova conoscenza di noi stessi. Intanto ci scopriamo mancanti, insufficienti. Non a caso Platone fa dire a Socrate che Eros è figlio di Penìa, mancanza, povertà (ne parleremo nella prossima lettera). Siamo strutturalmente bisognosi e sentiamo l’urgenza di colmare questa mancanza. Siamo sedotti da qualche caratteristica dell’altro, da qualche particolare che per gli altri è insignificante e, poiché portatori di una carenza, siamo sempre spinti alla ricerca di ciò che può colmare la nostra mancanza. L’altra persona diventa così portatrice di speranza, e rappresenta la possibilità del nostro rinnovamento. Di solito tendiamo a illuderci di essere autosufficienti, ma il corpo scardina tutte le sicurezze e fa sentire prepotentemente la propria voce. Sentiamo la vulnerabilità, perché sentiamo che siamo esposti all’altro, e che l’altro è libero e non lo possiamo controllare. Siamo esposti all’altro, perché dobbiamo svelargli un sentimento che custodiamo dentro e che fa tutt’uno con noi stessi, senza maschera, senza finzioni. Sentiamo che l’altro può guardare dentro di noi e ci sentiamo deboli, come dici tu. Ma è solo attraverso questa esperienza che passa attraverso la perdita di una presunta autonomia che noi riusciamo veramente a rinnovarci. Così scrive Aldo Carotenuto: “Darsi a chi amiamo significa abdicare alla propria autonomia, e questa può essere restituita soltanto dalla persona a cui è stata data. Ecco quindi il gioco circolare della dimensione amorosa, vista nella prospettiva del dichiararsi: io riesco a offrirmi e ad aprirmi all'altro solo se metto a repentaglio la mia indipendenza, che può essermi restituita soltanto da lui. Rivelarsi può assumere diversi significati, ma per chi vive questa esperienza il valore più profondo e fondamentale sta nel comprendere che il dire di "sì" a qualcuno è un dire di "sì" a se stessi, in quanto capaci di mettersi a nudo e di accettare la propria debolezza”.
Senza fare il tuo nome (Simone è nom de plume), ho provato a leggere la tua lettera in un paio di classi, perché quando dicevo che l’argomento della settimana successiva sarebbe stato l’innamoramento, e che avevamo scelto la lettera di un ragazzo, tutti mi chiedevano di leggere la lettera e di sapere chi era l’autore. Ammetto: ho ceduto davanti a tanta insistenza e voglio dirti questo: i ragazzi, in genere, dopo la lettura stavano in silenzio, e mi guardavano; qualcuno mi ha detto: “è un ragazzo in gamba se è riuscito a scrivere questo”; mentre le ragazze dicevano: “ma che tenero”, “è di questa scuola?” “prof., ci dica il nome, uno così è da conoscere subito”, “che persona sensibile” “ma si deve dichiarare, alle ragazze fa piacere”, ecc. ecc. Sono intervenute ragazze di cui non conoscevo ancora la voce. Per dire.
Quella che tu dici essere debolezza è l’intimità esposta che può essere accolta oppure no. Ma è un rischio che bisogna correre. Quella debolezza che senti in ogni caso ti rivela delle parti di te che non conoscevi, ti rimanda alla componente profonda di te stesso. Ma quella che ti sembra debolezza invece è la forza che ti permetterà di conoscerti meglio, di comprendere meglio quello che avviene dentro di te e di instaurare nuove relazioni positive con gli altri. Questa “fragilità” è invece cercata dagli altri e attesa (e conosciuta) come una particolare sensibilità, che altro non è che una capacità di sintonizzarsi con l’altro sesso più autentica e matura.
Un caro saluto,
alberto

P.S. Il musicista Gaetano Donizzetti (Bergamo, 1797-1848) ha scritto un’opera dal titolo “L'elisir d'amore” (oggi puoi trovare il testo tratto dal racconto di Eugène Scribe "Le philtre" -Il filtro d'amore- pubblicato da Archinto nel 1999 con i disegni di Tullio Pericoli).