lunedì 13 settembre 2010

Aduevoci continua....


Cari ragazzi,
per non rendere i post troppo lunghi e per poter rispondere alle molte domande su tematiche differenti; ma anche per poter avere maggiore spazio per inserire altri articoli, importanti dal punto di vista scientifico o filosofico, abbiamo pensato di continuare l'iniziativa nel corso dell'anno scolastico 2010-2011, sviluppandola su due altri blog:

Alessandra selezionerà articoli sulle ultime novità scientifiche e risponderà a questioni sulle tematiche specifiche sul suo blog personale, che già nel corso dello scorso anno si è arricchito di molti articoli stimolanti:
http://apiuvoci2.blogspot.com/
Alberto inserirà articoli culturali e risponderà a domande filosofiche sul blog:
http://albertolusso.blogspot.com/.

Speriamo che le letture proposte in entrambi i blog siano da stimolo per riflettere sulle tematiche del nostro tempo e possano suggerire approfondimenti e ricerche personali.

Un caro saluto e
buona lettura
Alessandra e Alberto

lunedì 7 giugno 2010

Le lettere ricevute...e i post a scuola



Cari ragazzi,
Settimana dopo settimana, articolo dopo articolo, siamo giunti fino a giugno…
e giugno, almeno a scuola, è tempo di bilanci.
Innanzitutto sentiamo un bisogno particolare: quello di ringraziare.
Grazie a tutti voi ragazzi che avete creduto in questa iniziativa e avete inviato delle lettere bellissime. Vi ringraziamo perché avete deciso di discutere con noi le tematiche che vi stanno a cuore e perché avete scelto di affidare alla riflessione scritta “dilemmi morali”, inquietudini personali, perplessità sulle credenze acquisite; perché avete sondato con delicatezza argomenti complessi, esplorato nel profondo abitudini, credenze e senso comune. Siamo soddisfatti, perché avete saputo ascoltare le dissonanze che risuonano nella mente quando aspetti della realtà non si accordano più con le credenze consuete, rituali o ereditate. Ci avete suggerito temi bellissimi, fornendoci lo spunto per intraprendere alcuni sentieri nella cultura.
Abbiamo ricevuto moltissime lettere e alla maggior parte, a dire la verità, non abbiamo ancora risposto. Queste lettere sono ancora lì. Attendono.
Speriamo, almeno per ora, di essere riusciti a tendere sufficientemente l'orecchio ai vostri richiami, a dare spazio alle vostre riflessioni e a suggerire qualche incontro con filosofi e scienziati che nella storia hanno dedicato il loro lavoro di ricerca a chiarire concetti e a suggerire nuove visioni della realtà, nuove prospettive interpretative.
Abbiamo fatto un lungo viaggio, ogni lunedì, dove si sono intrecciate tante voci: le vostre, quella degli autori citati, le nostre.
E qualcosa, nell’inconscio, continua a risuonare.
Portiamo tutte le lettere nel cuore, anche quelle più personali, intime, sofferte.
Scrivere sulle tematiche filosofiche e sui problemi della vita quotidiana ci ha permesso di ritornare sulle questioni che tanto ci appassionano e che ogni volta mostrano aspetti diversi e meravigliosi.
Ci sembra che sia la stessa esperienza che si prova viaggiando. Lo scrittore italiano Claudio Magris, nel libro L’infinito viaggiare (2005) spiega bene questa condizione quando racconta di essere ritornato in un luogo già conosciuto:

Una stessa realtà era insieme misteriosa e familiare; quando ci sono tornato per la prima volta, è stato contemporaneamente un viaggio nel noto e nell'ignoto. Ogni viaggio implica, più o meno, una consimile esperienza: qualcuno o qualcosa che sembrava vicino e ben conosciuto si rivela straniero e indecifrabile, oppure un individuo, un paesaggio, una cultura che ritenevamo diversi e alieni si mostrano affini e parenti. Alle genti di una riva quelle della riva opposta sembrano spesso barbare, pericolose e piene di pregiudizi nei confronti di chi vive sull'altra sponda. Ma se ci si mette a girare su e giù per un ponte, mescolandosi alle persone che vi transitano e andando da una riva all'altra fino a non sapere più bene da quale parte o in quale paese si sia, si ritrova la benevolenza per se stessi e il piacere del mondo.

Così è stato anche per noi affrontare i temi proposti: un viaggio nel noto e nell’ignoto. Guardare i problemi da prospettive differenti aiuta a comprendere meglio ciò di cui si sta parlando, rivela aspetti insoliti della realtà e delle questioni. Aiuta a ri-considerare certezze acquisite e a guardare con benevolenza noi stessi e chi la pensa diversamente. Ascoltare voci diverse, che talvolta possono suonare aliene, consente di individuare sentieri nuovi da pensare.
Un abbraccio a tutti,

Buone vacanze,
e a presto,
Alessandra e Alberto

lunedì 31 maggio 2010

La vita artificiale (2a parte)


Da un articolo sul Corriere della Sera del 26 Maggio 2010:

Zygmunt Zimowski: «Importante risultato scientifico.
Ma è improprio definirla atto creativo. Va monitorata»

«Solo Dio crea, l'uomo produce». Il Vaticano interviene nel dibattito che si è creato intorno alla notizia della cellula sintetica sviluppata da Craig Venter, il ricercatore statunitense da tempo in competizione con gli scienziati del Progetto genoma per arrivare al sequenziamento del Dna. E che ora ha sviluppato un Dna completamente sintetico. Come detto da lui e riportato su Science: «la prima cellula sintetica mai creata, totalmente derivata da un cromosoma sintetico, costruita con quattro bottiglie di composti chimici su un sintetizzatore a partire da informazioni elaborate al computer». Ma il Vaticano corregge: La cellula sintetica prodotta in laboratorio dall'équipe di Craig Venter, non può assolutamente essere definita come «creazione della vita». La cellula in questione è un prodotto tecnico dell'uomo. Si tratta di «biologia sintetica».

PRODOTTO UMANO - A prendere posizione è il Presidente del Pontificio consiglio per gli operatori sanitari, mons. Zygmunt Zimowski, che ha rilasciato una dichiarazione in merito al dibatto che si è aperto in questi giorni alla Radio Vaticana. «Stando a quanto sinora reso pubblico in merito alla cosiddetta cellula sintetica - ha affermato Zimowski - si può certamente definirla un importante risultato tecnico della ricerca scientifica. E questo dobbiamo ammetterlo. È invece improprio, e vorrei ribadirlo, è improprio definire la realizzazione di questa cellula come un atto creativo o come la creazione della vita». «Non dobbiamo parlare di creazione: solo Dio crea, l'uomo produce. Questo è un prodotto umano, non una creazione. Si tratta, senza nulla togliere al valore dei ricercatori, di una modifica di quanto già esistente, dunque, di biologia sintetica».

L'IMPREVEDIBILE - La cellula sintetica, sostiene l'arcivescovo polacco, rilancia due questioni fondamentali: «Il cosiddetto rischio dell'imprevedibile, legato a novità di questo livello, e l'indissolubilità del binomio scienza-etica», dice mons. Zygmunt Zimowski. «Dobbiamo sempre rispettare il binomio scienza-etica e sarà, dunque, necessario che il proseguimento delle ricerche su tale cellula sia accuratamente monitorato». Quindi il rappresentante vaticano ha osservato: «Vorrei aggiungere ancora che - come è già avvenuto per il genoma umano con la costituzione dell'Elsi-Ethical, legal, and social issues - per il suo futuro impiego sarà necessario mettere a punto un apposito progetto parallelo che vada cioè di pari passo con il progredire della sperimentazione, valutandone l'impatto etico, legale e sociale».

RIFLESSIONI:
SINTETICO (significato) = Di prodotto ricavato artificialmente per sintesi.
Finora, nessun prodotto sintetico, di tipo animale, si autoriproduceva. Non solo: in questo caso i discendenti si potranno accoppiare con cellule non sintetiche e generare altri organismi.
E questi organismi come li definiremo? …..SEMISINTETICI, o sintetici al 30%, al 60%, al 90% ?
E se sostituiremo il DNA di un ovulo fecondato umano, con un DNA completamente sintetico, cosa otterremo? …Un UOMO sintetico, con minor diritti dei nostri, ma che si potrà accoppiare con donne non sintetiche? ……. Certo poi sorgerà il problema di stabilire se hanno un’anima o meno.
Qualche esponente del Vaticano, nella sua ingenuità, vorrebbe far nascere un nuovo tipo di RAZZISMO, ancora più pericoloso.
In ogni caso, è lapalissiano che questi tipi di esperimenti si faranno anche in Cina (hanno già realizzato ibridi di uomo e coniglio), senza che nessuna autorità internazionale potrà vietarli. Per cui è meglio accettarli e, semmai, preparare delle contromisure (tipo antivirus).

Alessandra

lunedì 24 maggio 2010

La vita artificiale



La prima cellula sintetica.
Ieri ho letto sui giornali che arrivano a scuola (e poi ho approfondito a casa) che è stata costruita in laboratorio la prima cellula artificiale, controllata da un Dna sintetico, in grado di dividersi e moltiplicarsi proprio come qualsiasi altra cellula vivente. Ho sentito parlare di vita artificiale e su qualche sito ho letto che l'uomo "gioca a essere Dio". E' veramente così? ...... E per quanto riguarda la famosa disputa tra Vaticano e biologi "sul fatto che le mutazioni genetiche siano giudate da Dio o casuali", questo avvenimento cambia qualcosa?
Laura


Per fornire una corretta informazione sulla scoperta, riportiamo un articolo significativo di Lara Ricci (ilsole24ore, 21-05-2010)

L'era della vita artificiale ha avuto inizio?
Sul pianeta terra è nato un nuovo organismo, con vita propria, inventato dall’uomo. Lo annuncerà domani la rivista «Science»: è stato creato il primo batterio guidato da un genoma artificiale. Assemblato a piacimento, a partire da istruzioni contenute in un computer, da quattro bottiglie di sostanze chimiche e da un sintentizzatore di Dna.
L'ultimo arrivato è un micronbo molto simile a uno già esistente, ma la speranza è creare un Mycoplasma laboratorium: un microrganismo il cui genoma sia fatto dei soli elementi essenziali per la vita e di una manciata di geni capaci di trasformarlo in una fabbrica di sostanze utili per l’umanità.
Il demiurgo è Craig Venter, uno degli uomini più conosciuti al mondo, nel vero senso della parola: il suo genoma fu uno dei primi 5 ad essere sequenziati, nel 2001. Il fondatore della Celera Genomics, che lasciò nel 2002, con Clyde Hutchinson e il Nobel Hamilton Smith sono il trio che insegue questo sogno dal 1995, quando sequenziarono, per primi, il genoma di due batteri. Uno dei due, il Mycoplasma genitalium, con soli 500 geni, è il microbo con il genoma più piccolo al mondo. Allora lo scopo era individuare le istruzioni che compongono l'essenza della vita per poi riassemblarle in laboratorio e creare l'organismo più semplice. Una cellula cioè con un patrimonio genetico brevissimo, che contenesse solo le informazioni fondamentali per nutrirsi e duplicarsi. Cancellarono così 100 geni, e mostrarono che il microbo continuava a sopravvivere.
Il passo successivo fu creare un Dna artificiale, a tavolino, e poi fare sì che funzionasse una volta inserito in una cellula ricevente. Questo si rivelò più difficile del previsto, anche perché la tecnologia necessaria doveva essere inventata. Nel 2007 il trio mostrò che era possibile trapiantare i cromosomi da una cellula di una specie batterica a un’altra, nel 2008 provarono di poter assemblare un genoma artificiale, ma poi la ricerca si impantanò perché il Mycoplasma genitalium era troppo lento a crescere, ci volevano settimane per capire se l’esperimento aveva funzionato. Cambiarono dunque organismo, ne presero uno più grande ma più vivace, il Mycoplasma mycoides, e cercarono di creare un Dna sintetico molto simile a quello di questa specie.
Oggi Venter, molto invecchiato, in una conferenza via Skype organizzata da «Science» ha annunciato che questo genoma artificiale è stato trapiantato con successo in un altro batterio, il Mycoplasma capricolum: qui ha rimpiazzato il Dna dell’ospite e ora la nuova cellula si riproduce allegramente producendo le proteine codificate dal genoma "parassita".
«Pensiamo che sia davvero un risultato importante, sia dal punto di vista scientifico sia da quello filosofico. Di sicuro ha cambiato il mio punto di vista sulla definizione della vita e sul come questa funzioni», ha detto Venter, che ha poi spiegato: «È abbastanza sorprendente vedere, quando sostituisci il "software" Dna nella cellula, come questa immediatamente inizi a leggere il nuovo software, e inizi a produrre un nuovo set di proteine; in breve tempo tutte le caratteristiche della prima specie scompaiono e iniziano a emergere le peculiarità della nuova cellula batterica. Quando guardiamo alle forme di vita, tendiamo a vederle come entità fisse. Ma questa ricerca mostra come in realtà siano dinamiche, come cambino da un istante all’altro. La vita è principalmente il risultato di un software, di un processo informatico. Il Dna è quel software, le cellule lo leggono continuamente, fanno nuove proteine che a loro volta producono nuove componenti della cellula. Prima di oggi era difficile immaginare quanto dinamico fosse questo processo».
La vita è dunque un costante divenire, direbbe Eraclito.
>«Questo è uno strumento molto potente per cercare di progettare una biologia che faccia quello che vogliamo noi. Ho diverse applicazioni in mente», dice Venter che, con il suo J. Craig Venter Institute, ha fatto domanda per diversi brevetti. La società che ha cofondato con Smith, la Syntethic Genomics, ha finanziato buona parte della ricerca e ha stretto alleanze con Novartis e ExxonMobil. Tra le possibili applicazioni c’è infatti lo sviluppo di alghe capaci di catturare il biossido di carbonio (CO2) e trasformarlo in idrocarburi che possano essere trattati nelle raffinerie, o creare batteri in grado di mangiare gli inquinanti nel suolo, o di produrre sostanze per farmaci o alimenti. Si possono inoltre studiare metodi per velocizzare la produzione dei vaccini.
«Sono convinto che potremmo ridurre il tempo del 99%» sostiene Venter.
Tuttavia, nonostante il traguardo oggi raggiunto, la creazione di genomi "su misura" capaci di fare carburanti o farmaci, e la possibilità che questi funzionino una volta inseriti in una cellula ospite, è lontano. «Ci sono ancora grandi sfide da superare prima di poter pensare di creare un organismo dal nulla che faccia quel che vogliamo noi» ha detto Paul Keim, un genetista della Northern Arizona University, di Flagstaff. Insomma. Venter ha dato una sbirciatina nel futuro, ma le fabbriche di batteri artificiali che sgobbano per noi sono ancora fantascienza. Alcuni ricercatori hanno inoltre fatto notare che questo lavoro non ha creato una vera forma di vita sintetica, perché il genoma è stato inserito in una cellula esistente.
La ricerca, che ha impiegato una ventina di persone per oltre dieci anni, è costata 40 milioni di dollari.
Al momento le tecniche utilizzate da Venter sarebbero troppo complicate per risultare attraenti a qualunque terrorista. E Venter assicura che l'organismo prodotto è innocuo e comunque confinato in un laboratorio di alta sicurezza. Per il futuro stanno studiando sistemi per far sì che i nuovi organismi non possano scappare dal laboratorio: per esempio inserendo nel genoma geni "suicida", o utilizzando aminoacidi artificiali che non si trovano in natura. Tuttavia «questo esperimento riconfigurerà certamente la nostra immaginazione etica» ha detto Paul Rabinow, antropologo dell’Università della California (Berkeley), che studia la biologia sintetica. Man mano che nuove forme di vita artificiale saranno alla nostra portata sarà necessario creare apposite regole e forme di controllo. «Le possibilità di un uso improprio sfortunatamente esistono» ha detto a Science, Eckard Wimmer, della Stony Brook University (New York State), che nel 2002 creò il primo virus sintetico.
Lara Ricci,
http://lararicci.blog.ilsole24ore.com/2010/05/lera-della-vita-artificiale-ha-avuto-inizio.html

Cara Laura,
Una mia riflessione.
Sarà interessante vedere se questi nuovi batteri artificiali, capaci di riprodursi, avranno una evoluzione genetica similare o diversa di quelli naturali. Il Cardinale Bagnasco ha parlato di intelligenza come dono di Dio, riferendosi probabilmente anche alla RAZIONALITA’ (che viene usata spesso dai cristiani, per dire che Dio ha fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza, proprio per la razionalità). Se fosse vero questo, anche gli ipotetici organismi discendenti da questi batteri artificiali dovrebbero avere, prima o poi, la stessa nostra razionalità. E qui non sono tanto d’accordo.
Antonio Damasio, uno dei più grandi neuroscienziati viventi, ha affermato, in un suo libro tradotto in 19 lingue, che l’errore di Cartesio è stato quello di non capire che la natura ha costruito la razionalità umana, non sopra la regolazione biologica, ma a partire da questa e al suo stesso interno. E la coscienza, ad esempio, si è evoluta gradatamente tramite tre tappe fondamentali (il Proto-se, la Coscienza nucleare e la Coscienza estesa. Vedi: http://www.ildiogene.it/EncyPages/Ency=Damasio.html). Per analogia, ogni evoluzione biologica, compresa la costruzione progressiva della RAZIONALITA’, per le proprietà trascrizionali scoperte da Eric Kandel (Vedi: http://www.psicoanalisi.it/psicoanalisi/neuroscienze/articoli/neuro4.htm), si deve evolvere con le esperienze e le interazioni con l'ambiente. Questo viene confermato dal fatto che molti principi di meccanica quantistica e la stessa relatività ristretta di Einstein non vengono compresi razionalmente, ma ACCETTATI o meglio SUBITI sia per il formalismo matematico e sia per essere verificati sperimentalmente. La nostra razionalità non avendone mai fatto esperienza, infatti non li comprende in modo intuitivo. La razionalità si serve della matematica e della logica, ma non coincide con esse.
Nulla esclude che organismi che hanno avuto esperienze diverse da noi e dai nostri antenati, raggiungano una diversa razionalità capace di intuire senza sforzo anche i concetti di meccanica quantistica, se ne faranno precoce esperienza.
Tutto questo anche per confutare la presunzione di molti atei. Se l’uomo non ha mai fatto esperienza di Dio (ammesso che esista) come farebbe a comprenderlo con la sua razionalità (frutto di progressive esperienze evolutive)?
Gli ATEI, inconsapevolmente, presuppongono che la razionalità, di cui tanto si vantano, sia caduta dal cielo (come per virtù dello SPIRITO SANTO), e poi pretendono di negare l’esistenza di DIO con la stessa razionalità. Non è così. Noi abbiamo una nostra razionalità umana frutto della nostra particolare evoluzione, che è sempre condizionata dalle limitate esperienze fatte. Ovviamente questo vuol dire che non si può dimostrare con la nostra razionalità la NON ESISTENZA DI DIO, come pretendono di fare molti atei, ma nemmeno la sua esistenza.
Nell'ipotesi che Dio esista, la visione della mia scuola di pensiero riesce a conciliare evoluzionismo e creazionismo, con una sua teoria: "Dio ha progettato i mattoni dell'universo (le stringhe) in un numero limitato e particolare, insieme a delle leggi fisiche particolari come il NON LOCALISMO. Questo ha fatto sì che l'evoluzione dal BIG BANG, in buona parte casuale, avesse dei VINCOLI. Questi vincoli presupponevano che fosse PRATICAMENTE CERTO che, prima o poi, in uno dei 10 elevato a 500 universi paralleli (multiuniverso a 11 dimensioni secondo la M-TEORIA) si sviluppasse un organismo biologico dotato di intelligenza e razionalità. E'superfluo sottolineare che se anche la M-Teoria (quella, oggi, più probabile) non fosse confermata, resterebbe sempre realistico il fatto che l'universo sia costituito da una serie limitata di particelle sub-atomiche, per cui il concetto complessivo della nostra teoria non cambierebbe".
Ne consegue che Dio non ha programmato le singole evoluzioni o mutazioni genetiche (ora anche l'uomo con il suo libero arbitrio le modifica); ma l'uomo era lo stesso nel progetto, veramente intelligente, di Dio. Un Dio che ci trattasse come dei burattini o come componenti di un videogioco programmato, non mi sembra tanto intelligente; e qualcuno come Craig Venter potrebbe illudersi di essersi sostituito a lui, creando una cellula artificiale. Invece anche l'azione dell'uomo nel poter creare nuove forme di organismi viventi rientra sempre nel progetto complessivo di Dio. E si superano così anche le apparenti contraddizioni tra fede cristiana e biologia (vedi: http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/77264).
Un caro saluto,
Alessandra

lunedì 17 maggio 2010

Il cervello secondo il neuroscienziato Boyden



Da un'intervista riportata dal corriere della sera del 28 Aprile 2010.

La differenza tra Ed Boyden e gli altri neuroscienziati è questa: mentre i colleghi stanno a guardare i neuroni e le loro reazioni, lui li provoca e li manipola. E’ un capovolgimento sia concettuale sia pratico che stupisce molti, tranne i colleghi che lavorano con lui nel laboratorio del Massachusetts Institute of Technology di Boston (passa sotto il nome di «Media Lab’s synthetic neurobiology group»).

E’ con intuizioni controcorrente e test rivoluzionari che ha strappato un posto tra gli scienziati «under 40» più promettenti, secondo la rivista «Discover». E sono le sue invenzioni a farlo scintillare tra gli «innovatori top» scovati da «Technology Review». Ma di sicuro dovrebbe essere inserito in un’ulteriore lista, più fantasiosa, quella dei ricercatori caleidoscopici, che utilizzano le logiche multidisciplinari da cui far decollare le idee: fisico di formazione e ingegnere elettronico per passione, lavora con una ventina di giovani che frullano biologia, matematica, computer e filosofia, avventurandosi nell’optogenetica, là dove si intrecciano ottica e genetica. Alle particelle - ha confessato - preferisce i miliardi di neuroni. Sono loro il mistero con cui avrà a che fare la scienza del XXI secolo, ha ripetuto al «Brainforum», il convegno sulle neuroscienze di Roma.

Professore, lei che idea si è fatto del cervello? Come lo definisce?«Come un computer altamente specializzato e potente, con la capacità di processare emozioni, decisioni e anche una molteplicità di percezioni sensoriali. Tutto avviene in modo veloce ed efficiente. E’ possibile con gli “shortcuts”, le scorciatoie: succede per esempio con le illusioni ottiche, come quando si guarda una cascata e si vede un’insieme coerente, non certo le singole gocce».

Ma la concezione di questa macchina - anche per merito suo - sta ulteriormente cambiando, giusto?«Sappiamo dagli studi condotti nell’ultimo decennio che svolge una serie di compiti in modo molto efficace, mentre è pessimo per altri, come la matematica. Un personal è veloce, l’uomo è miliardi di volte più lento. La maggior parte di noi, almeno».

Lei è diventato celebre per l’uso delle molecole fotosensibili che trasferisce nei neuroni: come funziona questa tecnica?

«Sono ricerche che abbiamo cominciato cinque anni fa, qui a Boston, insieme con un team a Stanford e un altro in Germania. Il progetto prevede l’individuazione di alcune molecole capaci di convertire la luce in segnali elettrici. E dato che il cervello funziona con impulsi elettrici, proprio come un computer, abbiamo pensato di utilizzare quelle molecole per accendere e spegnere le cellule del cervello, come un computer attiva e disattiva i suoi componenti».

Come avete ottenuto queste sostanze?
«Le molecole provengono da molte specie viventi, per esempio alghe, batteri e funghi».

E come riescono a trasformarsi in interruttori cellulari?

«Le molecole sono proteine e sono quindi codificate da geni specifici: quando li si seleziona dal Dna e li si inserisce nei neuroni, si producono le proteine stesse, quelle che convertono la luce in energia».

Quando avete trasferito la tecnica sulle cavie che cosa è successo?«La usiamo per “accendere” e per “spegnere” diversi circuiti: per esempio allo scopo di alterare lo stato emozionale di un animale, interferendo con le aree e i sentieri cerebrali deputati a specifiche reazioni, o per modificare le funzioni sensoriali. Adesso collaboriamo con le università della Southern California e della Florida per convertire alcuni neuroni in fotocamere in grado di percepire la luce esterna. E’ una strada che si rivelerà utile per trattare la cecità».

Queste manipolazioni possono diventare un «gioco interattivo» tra voi e la cavia?
«Ci sono molti modi per inserire i geni e alcuni sono permanenti, mentre altri no. Abbiamo scelto la prima soluzione perché così gli esperimenti diventano più semplici. Si ricorre a dei virus, gli stessi sfruttati anche per gli esseri umani: oltre 600 persone sono state già trattate a scopo terapeutico con gli “Aav” - i vettori basati su virus adeno-associati - trasferendo, appunto, piccoli “pezzi” di Dna nell’organismo, che impara così a produrre le proteine necessarie. E sottolineo che non si sono registrati effetti collaterali. A questo punto è possibile la seconda fase: usare la luce, per frazioni di secondo, attivando e disattivando le cellule del cervello, creando effetti differenti».

Che tipo di effetti, anche cognitivi?

«Anche cognitivi, naturalmente. Spesso mi viene chiesto se sia possibile alterare una memoria e questa, in effetti, è una delle aree di ricerca più stimolanti. Lavoriamo con gruppi di “Ai” - quelli che si occupano di intelligenza artificiale - e un progetto di cui discutiamo è questo: se si inseriscono dati e informazioni nel cervello, allora potremo combinare l’intelligenza biologica con quella acquisita dall’esterno, creando un nuovo tipo di super-processore».

Vi concentrate su un’area «nobile» come la corteccia?
«Stiamo studiando a fondo questa area, ma l’obiettivo finale è indagare il cervello nel suo complesso, dato che lavora come un sistema emergente, come un computer».

Progettate esperimenti anche sugli esseri umani?
«Una volta che le tecniche si riveleranno perfettamente sicure ed efficaci, allora potranno essere utilizzate per sviluppare nuove terapie. Non dimentichiamo che già oggi ci sono centinaia di migliaia di persone a cui vengono applicati diversi tipi di “implants” - di protesi, cioè - come quelli uditivi nell’orecchio interno o quelli anti-Parkinson. Rappresentano la base per sviluppare sistemi di seconda generazione, più precisi e più efficaci».

Che cureranno che cosa?
«Dal Parkinson all’Alzheimer, penso. Ma anche tante altre disfunzioni neurologiche e psicologiche. Ci sono decine di team, non solo a Boston, che studiano tante possibilità».

Si apre però anche la possibilità di alterare idee e comportamenti, fino all’INTERA PERSONALITA': questo non la inquieta?
«Sono preoccupazioni comprensibili, ma è una questione che rientra in tema molto più vasto, da considerare in modo pragmatico: basta pensare alle dipendenze che si sviluppano in seguito alle sostanze farmacologiche».

Qual è il suo prossimo obiettivo?

«Sono tre, in realtà. Identificare nuove molecole con proprietà specifiche sul sistema nervoso. Creare micro-strumenti che facciano transitare le informazioni volute nel cervello. Immaginare, infine, nuove applicazioni cognitive e terapeutiche».

Chi è Ed Boyden Bioingegnere
RUOLO: E’ PROFESSORE DI SCIENZE COGNITIVE E RESPONSABILE DEL «SYNTHETIC NEUROBIOLOGY GROUP» AL MIT DI BOSTON(USA)
IL SITO DEL LABORATORIO: HTTP://EDBOYDEN.ORG/

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Questa intervista esprime una delle più aggiornate concezioni del funzionamento del cervello (apparentemente molto RIDUZIONISTA). Questo non significa, però, che non possa coesistere, con questa concezione, anche un approccio ESTERNISTA, ovvero che la "mente umana" (conscio ed inconscio) abbia dei collegamenti esterni con l'ambiente o con altri inconsci che influiscono sul comportamento generale. Tra le varie teorie esterniste c'è anche quella della mia scuola di pensiero.
Alessandra

lunedì 10 maggio 2010

Dio è buono?


Dopo migliaia di anni in cui sono accadute le stesse cose e l'uomo è migliorato molto poco dal punto di vista sociale, io mi chiedo: come fa l'uomo a credere in un Dio che ha come maggiore e principale attributo la bontà?
Luca


Caro Luca,
Freud, prendendo spunto dall’idea di Darwin che l’uomo primitivo aveva una organizzazione sociale (anche se primitiva) la chiamò “Orda Primordiale”.
Freud tracciò la sua idea sulla vita dell’uomo primitivo. Stando all’epoca dell’uomo cacciatore, il capo branco, con al suo seguito i maschi più forti e abili, partiva per la caccia che poteva occupare periodi anche lunghi.
In questo tempo lasciava, come simbolo della sua legge-potere:
- un totem del clan – che appartiene a tutto il gruppo e si trasmette ereditariamente;
- un totem del sesso – riferito a tutti i maschi ed anche alle femmine come proibizione ai membri del “clan” di sposarsi tra loro
- un totem soggettivo – riferito a quanto il clan si aspetta dai componenti.
Al ritorno dalla caccia, il Capo esercitava il proprio diritto di possedere tutte le femmine e di punire chi avesse tentato di prendere il suo posto: di accoppiarsi con qualche femmina.
Questa azione non aveva nulla di “affettuoso” proprio in quanto il Capo era trascinato dalla sua “spinta libidica” dal piacere cha ha una giustificazione prevalentemente biologica (libido genitale).
La situazione di “sopruso” che poteva anche arrivare alla “castrazione” del giovane troppo attivo, portava ad una “ribellione” che, mettendo alla prova il potere del vecchio, finiva spesso con l’omicidio, l’uccisione cioè del Capo-branco ed anche del “pasto rituale” per appropriarsi delle sue qualità, capacità, potenzialità.
Freud vide in questo paradigma la nascita del “senso di colpa”, legato quindi al “parricidio e alla ribellione alle leggi aggressive e castranti del padre.
Questa situazione sociale, poi cambia, all’incirca 35.000 anni fa con la nascita dell’agricoltura e dell’evoluzione dall’uomo sapiens in uomo sapiens sapiens, attraverso la nascita degli affetti e dei sentimenti specificatamente familiari, in cui anche la madre diventa punto di riferimento.
Il concetto archetipo del padre-padrone, che poi l’uomo identifica con Dio, che ti premia o ti punisce a secondo del tuo comportamento, rimane per decine di millenni, fino ad arrivare a 5500 anni fa con la religione dei Sumeri, che hanno inventato la scrittura.
Se si legge il mio POST: http://apiuvoci2.blogspot.com/2009/10/1.html
si vede che già i Sumeri credevano che gli dei mandavano i terremoti per punire gli uomini; ovvero lo stesso concetto primordiale che gli dei (o più recentemente Dio) ti premiano o ti puniscono a secondo del tuo comportamento.
Ancor in modo più esplicito, la formulazione di questo concetto è stata tracciata già su un papiro, 2200 anni prima di Cristo, in occasione della caduta dell’Impero Egizio.
(vedi: http://www.psicoanalisi.it/psicoanalisi/osservatorio/articoli/osserva16.htm)
“Questo testo, che senza ombra di dubbio costituisce uno dei primi scritti della Storia, racconta l’angoscia di una persona colta e socialmente importante, forse uno scriba, che viene assalita da “un attacco di panico” di fronte al disgregarsi della forza vitale che aveva finora caratterizzato il proprio impero e, di riflesso, la propria esistenza. Da questa presa di coscienza, scaturisce una profonda reazione depressiva, da cui cerca di fuoriuscire interrogando la propria anima, nel tentativo di trovare in essa il motivo sufficiente per continuare a vivere. L’anima si impegna a fondo nel fornirgli valide e copiose risposte che possano indurre l’io sofferente a non abbandonare la vita, ma egli non si lascia convincere e, in preda alla più devastante disperazione, si uccide lanciandosi nelle fiamme.”
Dovranno passare ben 1600 anni, per far sì che la mente umana elabori gradatamente nuove sinapsi. Ritroviamo, infatti, un episodio similare nel 600 a.c con il Libro di Giobbe, ambientato in Mesopotamia. Questo celeberrimo testo biblico costituisce il fondamento del superamento della domanda primordiale.
Nella versione originale, questa volta, Giobbe, alla fine, riesce a confrontarsi con Dio, che si rivela direttamente nella Sua vera natura. E”questa percezione non mediata del REALE che ingenera la nascita di nuovi concetti e di nuove sinapsi.
“Durante la visione del Principio Creatore, Giobbe sospende ogni giudizio, dato che comprende che le Leggi del Creato esistono indipendentemente da ogni desiderio umano: anche se per motivi assolutamente incomprensibili all’uomo, il Principio Vitale ingenera il sole, gli astri, gli oceani, insieme ai mostri Behemot e Leviatan. che sono emanazioni indissociabili della stessa Legge. Lo stesso Contenitore abbraccia aspetti diversi e contrapposti, senza contraddizione alcuna. Giobbe si rende conto che non è più possibile scindere il Creato nei suoi aspetti buoni e cattivi, che non esiste in Dio una volontà diretta volta alla protezione dell’Uomo e che le Sue Leggi non possono essere commisurate alla volontà umana.
Scrive G.Ravasi”...In questo mirabile discorso si celebra una vera e propria rivoluzione copernicana nella cultura dell'antico Oriente: l'uomo non è più al centro del creato, come insegnava la sapienza tradizionale, ma ne è solo una microscopica componente che non riesce a rendere conto dell'insieme del cosmo.
L' universo appare incomprensibile e ignoto nell' infinitamente grande (le strutture planetarie) e nell' infinitamente piccolo (il parto delle camosce). Eppure, l'Essere ha un progetto che tiene insieme armonicamente aspetti tanto disparati...(omissis)."
Purtroppo la presa di coscienza CHE NON ESISTE IN DIO UNA VOLONTA’ DIRETTA ALLA PROTEZIONE DELL’UOMO O ALLA SUA PUNIZIONE, acquisita già nel 600 a.c., è un qualcosa che spesso si dimentica e che le religioni travisano.
Sul fatto che la società umana non migliori affatto nel tempo, invece non concordo, e ti invito a leggere il mio POST sul MALE e SUL BENE del 29 Gennaio 2010:
http://apiuvoci2.blogspot.com/2010/01/il-bene-e-il-male-rev-1.html
Da cui si evince che il genere umano sta tendendo, seppur lentissimamente, a diventare più altruista e meno egoista.

Un caro saluto,
Alessandra

Caro Luca,
Il filosofo della scienza statunitense Daniel Dennett (1942), nel libro Rompere l’incantesimo (Raffaello Cortina 2007) riporta una citazione dello scrittore Andy Rooney che ripropone in modo ironico le perplessità che hai espresso nella tua lettera: “A Pasqua, secondo tradizione, il Papa prega per la pace e il fatto che questo non abbia mai avuto effetto nel prevenire o porre fine a una guerra non lo ha mai scoraggiato. Come se lo spiega il Papa, un rifiuto così sistematico? Che Dio ce l'abbia con lui?” Oppure, seguendo questa stessa linea, più avanti ricorre ad un’altra citazione e dice: “Come disse una volta il comico Emo Phillips: "Quando ero ragazzo, pregavo sempre Dio perché mi regalasse una bicicletta. Poi ho capito che Dio non funziona in questo modo: allora ho rubato una bicicletta e ho pregato perché Dio mi perdonasse! ".”
La versione ironica e spregiudicata cela però un’amara convinzione: o Dio non interviene nella storia degli uomini o l’azione di Dio nella storia è incomprensibile per l’uomo. Hai ragione quando dici che tra gli attributi di Dio quello della bontà è certamente uno dei più importanti. Nella Bibbia, ad esempio, troviamo spesso il riferimento alla bontà di Dio. Il libro dei Salmi è un continuo inno di ringraziamento a Dio per la sua bontà; infatti si incontra frequentemente la frase: “Lodate il Signore, perché è buono”. E anche nel Nuovo Testamento si fa riferimento alla bontà di Dio, ad esempio nel vangelo di Marco, quando un uomo si avvicina a Gesù e lo chiama “Maestro buono” Gesù gli risponde: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo” (Mc 10,18). Certo, se si pensa alla creazione, oppure al fatto che esiste qualcosa piuttosto che nulla, alle meraviglie della natura, del cosmo, alla complessità della vita, alla pluralità delle forme viventi o anche alla nascita della vita stessa lo stupore e l’incanto possono far pensare alla grandezza e alla bontà di un Dio. Agostino parla di onnipotenza e di bontà di Dio guardando semplicemente con meraviglia la vita di un bambino. Nelle Confessioni, infatti, scrive: “Tu dunque, mio Dio e Signore, che hai dato al bambino vita e corpo, che come vediamo lo hai dotato di sensi e di membra ben compaginate, hai reso grazioso il suo aspetto e hai insinuato in lui tutti gli impulsi vitali adatti a preservarne l’incolumità in ogni condizione, tu mi ordini di renderti lode per tutto questo e di riconoscerti e di inneggiare al tuo nome, Altissimo. Perché sei un Dio onnipotente e buono e lo saresti anche se questa fosse la tua sola opera, che non poteva esser compiuta da alcuno se non da te, unico, da cui viene ogni misura, modello di bellezza che ogni cosa modelli e ordini secondo la tua norma”. (Le confessioni, Garzanti 2008). Non tutti credono però alla bontà di Dio e pensano che questo mondo sia il “migliore dei mondi possibili”, secondo la celebre frase di Leibniz.
Arthur Schopenhauer ne Il mondo come volontà e rappresentazione (Laterza 2009) dall’analisi di alcune sofferenze e dalla condizione umana giunge infatti ad altre conclusioni: “Se finalmente a ciascuno si volessero porre sottocchio gli orrendi dolori e strazi, a cui è la sua vita perennemente esposta, lo coglierebbe raccapriccio: e se si conducesse il più ostinato ottimista attraverso gli ospedali, i lazzaretti, le camere di martirio chirurgiche, attraverso le prigioni, le stanze di tortura, i recinti degli schiavi, pei campi di battaglia e i tribunali, aprendogli poi tutti i sinistri covi della miseria, ove ci si appiatta per nascondersi agli sguardi della fredda curiosità, e da ultimo facendogli ficcar l'occhio nella torre della fame di Ugolino, certamente finirebbe anch'egli con l'intendere di qual sorte sia questo meilleur des mondes possibles. Donde ha preso Dante la materia del suo Inferno, se non da questo nostro mondo reale? E nondimeno n'è venuto un inferno bell'e buono. Quando invece gli toccò di descrivere il cielo e le sue gioie, si trovò davanti a una difficoltà insuperabile: appunto perché il nostro mondo non offre materiale per un'impresa siffatta. Perciò non gli rimase se non trasmetterci, in luogo delle gioie paradisiache, gli ammaestramenti, che a lui furono colà impartiti dal suo antenato, dalla sua Beatrice, e da differenti santi. Da ciò apparisce abbastanza chiaro, di qual natura sia questo mondo”.
Come a dire che a seconda di ciò su cui soffermiamo la nostra attenzione riusciamo o meno a vedere aspetti positivi dell’esistenza. Possiamo dire che il credente è più portato a valorizzare la meraviglia e si sente in dovere di ringraziare o di rendere lode a Dio; mentre il non credente, forse maggiormente concentrato sugli aspetti negativi dell’esistenza, manca di quella stessa fiducia, si sente “gettato” in un mondo e non riesce a capacitarsi delle sofferenze e dei patimenti estremi; come dici tu, non riesce a pensare che un Dio buono possa lasciare accadere eventi crudeli e dolorosi a coloro che nella Bibbia vengono chiamati “i suoi figli”. Non tutti infatti hanno la fiducia e l’ottimismo di Sant’Agostino il quale riteneva che Dio lasciasse accadere il male, perché in grado di trarre il bene anche dal male. Nel De vera religione scriveva: «Dio onnipotente, essendo sommamente buono, non lascerebbe assolutamente sussistere alcunché di male nelle sue opere, se non fosse onnipotente e buono fino al punto da ricavare il bene persino dal male».
Nel Novecento, soprattutto a partire dall’Olocausto, l’idea che gli uomini sono abbandonati da Dio si è fatta molto forte, nella letteratura, nella poesia e nella filosofia. Ho qui davanti a me due libri di Elie Wiesel, Il giorno (1999) e La danza della memoria (2008), e voglio riportarti quello che mi ero segnato, proprio a questo riguardo. Il protagonista de Il giorno, dopo un incidente, si trova in un letto di ospedale in gravi condizioni. Un dottore entra nella stanza e gli comunica che riuscirà a sopravvivere e che non gli devono amputare le gambe. Il medico gli dice: “« Bisogna ringraziare Dio » e lui risponde: « Come si fa a ringraziare Dio? » […] Avrei voluto aggiungere: perché ringraziarlo? Da tanto tempo non capivo più cosa avrebbe potuto fare il buon Dio per meritare l'uomo”. Ovviamente non fa riferimento alla propria condizione personale provvisoria, ma in quella condizione ha tutto il tempo per rievocare il passato e il genocidio degli ebrei. Nel secondo libro La danza della memoria è invece riportato un dialogo che pare una lotta tra un credente e un non-credente: “E Avrohom, di rimando: «E Dio, in tutto questo, il Dio d'Israele, dove lo mettete?». Il rosso: «Lei osa invocare Dio? Qui? Adesso? Ma dov'era Dio quando noi avevamo bisogno della sua bontà, della sua giustizia, della sua potenza?». Avrohom: «Era con noi. Come noi. Ha sofferto! Come noi, ne ha avuto abbastanza della laica umanità assassina! ». Il rosso: «Ma sta scherzando! Un Dio prigioniero degli assassini dei nostri figli! E lei ci crede ancora! ». Avrohom, fuori di sé: «Empio, capo degli empi, le tue parole sono blasfeme!”.
Insomma, se uno si concentra sui fatti o sulla storia, può ricavare opinioni opposte sull’esistenza o non esistenza di Dio. Avrohom ha una fede incrollabile “nonostante” il negativo dell’esistenza, crede che Dio soffra con l’uomo stesso, mentre il suo interlocutore ha perso questa certezza.
In qualche modo, il credente conserva una speranza nonostante gli eventi sfavorevoli della vita. Considera bontà di Dio il fatto di essere al mondo e di avere una coscienza e pensa che Dio sia buono e che attraverso un’iniziativa gratuita (con Cristo) desideri farsi conoscere dall’uomo come fonte di amore, e che proprio l’amore sia il senso dell’esistenza.
Nel Novecento il filosofo Hans Jonas (1903-1993) ha scritto un piccolo libretto dal titolo Il concetto di Dio dopo Auschwitz (Il Melangolo, Genova 2004), in cui sostiene che Dio avrebbe abdicato alla propria potenza per lasciare libero l’uomo. In qualche modo Dio, pur presente nel mondo e nell’uomo, avrebbe lasciato all’uomo completa libertà, rinunciando alla propria onnipotenza. Invece di pensare a Dio come essere onnipotente, secondo l’autore dovremmo pensare che Dio ha messo in gioco anche se stesso affidando completamente anche la propria sorte alla libertà dell’uomo.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 3 maggio 2010

La preghiera


Premettiamo che, pur essendo cristiana, non sono per nulla praticante, non tanto perché non credo in Dio o in Cristo, ma soprattutto perché mi capita spesso di essere in disaccordo con i pensieri della chiesa moderna.
Quando ero più piccola alla sera spesso mi sentivo in dovere di dire le preghiere, forse perché le mie catechiste erano "insistenti" su queste cose, però nemmeno allora credevo davvero in ciò che facevo né in quello che dicevo: in realtà erano solo frasi che avevo imparato a memoria.
Oggi a volte mi capita di pensare quanto possa davvero essere utile pregare e soprattutto se sia giusto o meno rivolgersi a Dio solo in un momento di particolare difficoltà. Non capisco come sia possibile oggi, in una società così materialista come quella moderna, che esistano persone che credono nella possibilità di "fare delle richieste" a Dio semplicemente attraverso delle parole.
Io forse sono troppo razionale, quello che non posso vedere o in qualche modo percepire, per me non esiste, forse non ho ricevuto il dono della fede che mi permetterebbe di credere nelle cose astratte. Allora mi sorge un interrogativo: è utile pregare? Porta a risultati reali oppure è solo uno strumento di cui l'uomo si serve in un momento difficile?
Lorenza



Cara Lorenza,
La preghiera è una delle pratiche comuni a tutte le religioni. Essa consiste nel rivolgersi alla dimensione del sacro con la parola o con il pensiero; gli scopi della preghiera possono essere molteplici: invocare, chiedere un aiuto, lodare, ringraziare, santificare, o esprimere devozione o abbandono. La preghiera è solitamente considerata come il momento in cui l'uomo 'parla' al sacro, mentre la fase inversa è la meditazione, durante la quale è il sacro che 'parla' all'uomo.
Spesso ci rivolgiamo alla preghiera in una condizione di sofferenza fisica e morale; ma il fatto stesso di pregare di per sé è già sufficiente a ridurre, almeno momentaneamente, le nostre tensioni, ad attenuare la nostra disperazione, a riportare un po’ di speranza. In realtà, questo momentaneo stato di benessere ci mette in una condizione “psicosomatica” tale che, quasi coinvolge, tutto il nostro organismo. Non è raro che pregando si ritrovi sia il benessere fisico e sia il benessere emotivo che sembravano perduti. Si può ritrovare il coraggio delle iniziative personali, la convinzione nei propri mezzi, la speranza che genera ottimismo, la consapevolezza di non essere soli o abbandonati. Se ci lasciamo guidare da questo particolare stato della mente, quell’attimo di armonia e di sensi può prolungarsi con la nostra volontà e guidarci verso una nuova rinascita interiore. E’ proprio questa “la risposta” che dovevamo attendere: nessun messaggio particolare e soprattutto materiale, nessuna manifestazione, ma la liberazione momentanea di una sofferenza, che ci può aprire alla speranza.
Quindi, è sufficiente la fede per avere sicuri benefici psicosomatici; ma esiste tutta una letteratura riguardante, per chi ci crede, le PREGHIERE DI GUARIGIONE; ed invito a rileggere il mio POST “EFFETTO PLACEBO ED AUTOGUARIGIONI”:
http://apiuvoci2.blogspot.com/2010/03/effetto-placebo-autoguarigioni-e-gene.html
Oggi, sempre più, abbiamo riscontri scientifici sul RUOLO DELLA NOSTRA MENTE e dei nostri complessi o convinzioni inconsci sul benessere o sul malessere del nostro corpo. E ricordiamo che il linguaggio dell’inconscio è anche basato sul SIMBOLISMO.
Il 19 Aprile del 2010, è stato pubblicato sul corriere della sera ON LINE un articolo che ci conferma quanto sopra:
http://www.corriere.it/salute/reumatologia/10_aprile_19/ginocchio-corridore-psicosomatico_d2234aa6-20a9-11df-a848-00144f02aabe.shtml
In questo articolo viene illustrata una ricerca scientifica su circa 150 persone soggette a forti dolori al ginocchio, che pur operate più volte non guarivano. «Si è quindi provato ad esplorare altre strade per capire le cause del sintomo» ha spiegato l’ortopedico del gruppo dei ricercatori, «che colpisce prevalentemente il sesso femminile: nella nostra casistica le donne sono l’87 per cento». Dedicando un po’ di tempo a un colloquio più ampio con le loro pazienti, i medici hanno scoperto che il 42 per cento di loro era stato vittima di violenza durante l’infanzia: circa una su quattro aveva subito percosse, insulti o minacce o era stata trascurata o abbandonata; quasi una su cinque era stata oggetto di abusi di natura sessuale. «Queste persone possono avere anche altri tipi di problemi psicologici» prosegue Bergfeld, «soffrire di depressione o avere difficoltà a inserirsi nella società. Dalle nostre osservazioni abbiamo imparato che non è solo l’allineamento scorretto del legamento della rotula a provocare il dolore, che può persistere anche quando il ginocchio è apparentemente a posto».
Per capire perché la mente esprime il proprio disagio in una sede corporea piuttosto che in un’altra occorre tener conto del simbolismo dei vari organi legato soprattutto alla loro funzione. «Il ginocchio permette la flessibilità della gamba» commenta Piero Parietti, presidente della Società Italiana di Medicina Psicosomatica. «A questo livello si può quindi trasferire l’esigenza di rigidità di una persona abusata, che in questo modo cerca di difendersi». Non solo: il ginocchio è legato anche al movimento delle gambe, indispensabili per muoversi e simbolo quindi di libertà. Una libertà che nel corso degli abusi infantili può essere stata fortemente compromessa.
Detto questo, ed indipendentemente da questo, esistono delle scuole di pensiero, tra cui quella a cui appartengo, che ammettono la COMUNICAZIONE TRA INCONSCI (vedi anche il testo di psicosomatica on line dell’università di Torino: http://www.sicap.it/merciai/psicosomatica/badjob/Luca.pdf).
Se ammettiamo, allora che gli inconsci possano comunicare tra di loro, gli effetti della preghiera diventano notevoli, perché possono influire non solo psicosomaticamente sul nostro corpo, ma anche attraverso gli inconsci degli altri nelle loro auto guarigioni; senza contare che possono anche influenzare altre persone a comportarsi inconsapevolmente in modo diverso (effetto della profezia che si auto-avvera) e tutto questo, anche senza nessun intervento divino o spirituale.
In conclusione, pregare non fa male, anzi, può avere effetti psicosomatici positivi. Per cui non c’è nulla da vergognarsi. Al limite la preghiera si può considerare come un’autoipnosi o un’autosuggestione che porta benefici. Perché rinunciarvi?
Un caro saluto,
Alessandra


Cara Lorenza,
Artemidoro (II sec. d. C.) associava la preghiera alle richieste che gli uomini fanno a Dio per ottenere qualcosa, infatti scriveva che sognare luoghi di preghiera presagiva imminenti sofferenze: “Luoghi di preghiera […] predicono dolore, preoccupazione e struggimento dell'anima sia a un uomo che a una donna: infatti nessuno se ne va in un luogo di preghiera se non ha delle preoccupazioni” (Il libro dei sogni, Bur 2006). Immaginava dunque che le preghiere degli uomini dipendessero dai timori e dalle sofferenze nei confronti della propria vita o di quella dei propri cari. In qualche modo chi prega, prega per ottenere qualcosa dagli dei. Se gli uomini non fossero esposti a ostacoli, disgrazie e malattie, probabilmente non rivolgerebbero preghiere alle divinità. Gli antichi e anche i contemporanei pensano che gli dei siano in rapporto con l’uomo e pertanto si rivolgono a loro per attrarre la loro benevolenza o per mitigare la potenza del negativo attraverso preghiere, sacrifici e riti propiziatori. Individualmente o a livello collettivo. Di fronte alla malattie, alle catastrofi in cui muoiono persone innocenti, gli uomini sentono la propria impotenza e chiedono aiuto a qualcuno: agli dei o a Dio. L’imprevedibilità della vita, l’irrazionalità degli eventi, la paura della malattia, del dolore e della morte inducono gli uomini a cercare consolazione e aiuto. Ma esistono motivazioni egoistiche anche molto più basse. Michel de Montaigne (1533-1592) il filosofo francese brillante e disincantato sulla condizione umana, nei Saggi così descrive le giustificazioni che spingono gli uomini a pregare Dio: “L'avaro lo prega per la conservazione vana e superflua dei suoi tesori; l'ambizioso, per le sue vittorie e per il successo della sua passione; il ladro se ne serve di aiuto per superare il pericolo e le difficoltà che si oppongono all'esecuzione delle sue malvagie imprese, o lo ringrazia per la facilità con cui ha scannato un viandante. (c) Ai piedi della casa che stanno per scalare o per minare, essi dicono le loro preghiere, col pensiero e la speranza pieni di crudeltà, di lussuria, di cupidigia”. (Michel de Montaigne, Saggi, Adelphi 2005). Così sono gli uomini. Chiedono per appagare i loro bisogni, e non sempre i bisogni per cui fanno richiesta sono nobili. Ora però bisogna distinguere tra due concezioni di Dio: il Dio impersonale dei “filosofi e dei dotti” e il Dio personale del Cristianesimo. Dio, inteso come Essere supremo, o “Dio dei filosofi” non può essere pregato, perché l’Essere sommo è pura razionalità e perfezione; è la legge del mondo o la sua struttura e pertanto è assolutamente impersonale, disinteressato alla condizione umana e imparziale. Il filosofo e teologo Raymond Panikkar a questo proposito ricorda infatti che “Un Dio perfetto deve essere 'buono', imparziale e giusto. Non può permettersi favoritismi o atti di ira. Quindi, a rigor di logica, non può rispondere alle preghiere dei suoi fedeli, che spesso desiderano favori personali e protezione. Questo significa che il Dio dell'Essere non può amare”. (Raymond Panikkar, Il silenzio di Dio, Borla 1992). Poiché parti consistenti del razionalismo seicentesco e dell’illuminismo settecentesco consideravano la religione frutto dell’ignoranza e della superstizione, escludevano pertanto la fiducia nella possibilità che Dio si interessasse agli uomini e si dedicasse a rispondere alle loro richieste. La concezione del divino era infatti quella del deismo, ossia di una religione naturale e razionale che non ammetteva la rivelazione di Dio all’uomo (quindi contro il Cristianesimo), ma ammetteva l’esistenza di un Dio inteso semplicemente come ordinatore del cosmo. In questa concezione la preghiera era un atto assurdo, irrazionale e inammissibile per ogni uomo di ragione.
C’è molta differenza pertanto tra una concezione impersonale di Dio (deismo) e quella personale (teismo, e dunque Cristianesimo). Spiega molto bene questa differenza Joseph Ratzinger quando scrive: “Che ne è del nostro credere e pregare? Anzitutto, se la concezione personale e quella impersonale di Dio si equivalgono, sono fungibili, allora la preghiera diviene finzione, poiché se Dio non è un Dio che vede e che ode, se Egli non mi conosce e non mi sta davanti, la preghiera si leva nel vuoto. Essa risulta essere solo una forma di autocoscienza, di relazione intrattenuta con se stessi, non un dialogo. Può essere allora un'iniziazione all'assoluto, il tentativo di ascendere dalla condizione di separazione dell'io a un infinito a cui nel profondo sono identico e nel quale voglio inabissarmi. Ma tale preghiera non ha alcun punto di riferimento su cui ci si possa misurare e dal quale ci si possa attendere una qualche forma di risposta. […]Se invece Dio è persona, allora la realtà ultima e somma e anche la più concreta, allora io mi trovo sotto lo sguardo di Dio e nell'orbita della sua volontà, del suo amore”. (Benedetto XVI (Joseph Ratzinger), Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli 2003)
Egli definisce la preghiera: “un processo dialogico in cui io parlo a un Dio che è in grado di udire ed esaudire. In altre parole: la preghiera comune presuppone che il destinatario, e dunque anche l'atto interiore rivolto a Lui, vengano concepiti, in linea di principio, allo stesso modo. Come nel caso di Abramo e Melchisedek, di Giobbe e di Giona, dev'essere chiaro che si parla col Dio unico che sta al di sopra degli dèi, col Creatore del cielo e della terra, col mio Creatore. Dev'essere chiaro dunque che Dio è "persona", vale a dire che può conoscere e amare; che può ascoltarmi e rispondermi; che Egli è buono ed è il criterio del bene, e che il male non fa parte di Lui. A partire da Melchisedek, possiamo dire, dev'essere chiaro che Egli è il Dio della pace e della giustizia. Qualsiasi commistione tra la concezione personale e quella impersonale di Dio, tra Dio e gli dèi, dev'essere esclusa”.
In quest’ottica, al di là delle richieste che le persone rivolgono a Dio, vorrei farti riflettere sulla novità dell’importanza della preghiera per i Cristiani. Cristo dichiara in Matteo (5, 44-45): «Ma io vi dico: Amate i vostri nemici e pregate per coloro che vi perseguitano, così sarete figli del Padre vostro che è nei cieli, poiché egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti». Se ci pensi, questo insegnamento di Gesù sposta la preghiera su tutta un’altra dimensione, rispetto a quella personale o semplicemente utilitaristica: pregare per i nemici rappresenta un cambiamento decisivo del Cristianesimo rispetto alla religioni “primitive”. La religione dell’amore sconvolge dunque il senso antico della preghiera.
Per un riferimento più ampio a queste riflessioni, ti consiglio due brevi libri: quello di Enzo Bianchi, Perché pregare, come pregare, Sanpaolo 2009, e quello del cardinale Carlo Maria Martini, Qualcosa di così personale. Meditazioni sulla preghiera (Mondadori, 2009).
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 26 aprile 2010

Credere: I preti e la pedofilia


Sin da quando ero bambino ho ricevuto una educazione cattolica e negli anni dell’infanzia e in quelli dell’adolescenza, nonostante molti cambiamenti che sono avvenuti in me, sono stato molto credente.
L’altro giorno però sono venuto a conoscenza di un fatto che mi ha veramente sconvolto: prima nei paesi anglosassoni e nell’America latina e poi anche qui da noi è stata rilevata la presenza di preti che hanno abusato di minorenni, specialmente bambini. Ci sono rimasto veramente male: primo perché per me nessuno dovrebbe anche solo alzare un dito sui bambini. Il mio quesito è questo: ha ancora senso credere in qualcosa in cui non si ha più la giusta fiducia?
Lorenzo


Caro Lorenzo,
La pedofilia è oggetto di studio, da alcuni anni, anche delle neuroscienze comportimentali, e sembra sia dovuta sia a un comportamento criminale e sia alle azioni di un malato mentale con un cervello che lo predispone a determinati comportamenti sessuali; per cui non vi è nessuna relazione funzionale con l’omosessualità, come prefigurata nelle affermazioni fatte in Cile dal cardinale Bertone, che hanno recentemente e giustamente suscitato tante vibrate proteste da diversi ambienti.
La pedofilia lascia tracce profonde, forse indelebili, nella psiche di un bambino. Se il pedofilo ne avesse una pur vaga consapevolezza riuscirebbe a controllare l’impulso sessuale? Spesso l’unica forma di empatia che prova nei confronti delle emozioni degli altri consiste nell’individuare la vittima idonea tra le tante potenziali e manovrarla in modo da favorire le molestie sessuali.
Occorreranno ancora anni di ricerche per comprendere i meccanismi neurobiologici che portano alla pedofilia. Di certo sappiamo dalle interviste-confessioni di alcuni pedofili dove e come il pedofilo sceglie la sua vittime: spesso si insinua, per lavoro o per diletto, in ambienti frequentati da bambini (asili, scuole, ambienti ricreativi per l’infanzia, cori di chiese, corsi di musica, di pittura, etc) e predilige gli individui più vulnerabili.
Da questo quadro si comprende perché alcuni preti, che sono al contempo pedofili, trovano facili occasioni e spazi per portare a termine i loro odiosi crimini. La colpa della Chiesa Cattolica è stata, in tanti anni, quella di coprire questi reati e di favorirne la perpetuazione, limitandosi a spostare i preti colpevoli da una parrocchia all’altra; e questo spesso solo per non incrinare l’immagine generale della Chiesa agli occhi esterni (comportamenti che richiamano il vangelo, quando Cristo accusava gli scribi e i farisei di ipocrisia, paragonandoli a SEPOLCRI IMBIANCATI).
Non bisogna però cadere nell’errore che questo sia stato o sia l’orientamento di tutta la chiesa cattolica. Ad esempio, il Cardinale Carlo Maria Martini, afferma che, di fronte allo scandalo della pedofilia, può essere sottoposto a ripensamento il divieto di matrimonio per i preti, per prevenire nuovi casi di violenza e abusi sessuali. Il cardinale, infatti, in una intervista del 28 Marzo 2010, risponde così alla sfida lanciata dallo scandalo pedofilia. «Oggi, nel momento in cui il nostro compito nei confronti dei giovani e gli abusi contro di loro così scandalosamente si contraddicono, non possiamo tirarci indietro ma dobbiamo cercare nuove strade». Secondo Martini, «devono essere poste delle questioni fondamentali» e tra queste «deve essere sottoposto a ripensamento l'obbligo di celibato dei sacerdoti come forma di vita». Vanno inoltre riproposte le «questioni centrali della sessualità con la generazione odierna, con le scienze umane e con gli insegnamenti della Bibbia» perché soltanto «un'aperta discussione può ridare autorevolezza alla Chiesa, portare alla correzione dei fallimenti e rafforzare il servizio della Chiesa nei confronti degli uomini».
Vedi anche il POST: http://apiuvoci2.blogspot.com/2010/04/unintervista-vito-mancuso-su-lespresso.html
Ricordiamo che il Cardinale Martini era, nell’ultimo conclave, il candidato designato dell’ala progressista che si opponeva all’ala conservatrice della chiesa cattolica, che Papa Giovanni Paolo II volle consolidare preferendo nominare solo cardinali conservatori e favorendo così la sua successione con il suo delfino Ratzinger. Lo stesso Papa Giovanni Paolo II, in controtendenza a Paolo VI, emise, a mio avviso colpevolmente, una “direttiva non scritta” per rispondere “quasi sempre di no” a qualsiasi richiesta di sconsacramento di preti, compresi quelli pedofili. Ora l’attuale papa sta facendo marcia indietro (non possiamo sapere se volutamente o perché costretto dallo scandalo, difficilmente occultabile) ed è stata emessa una nuova direttiva pubblica che raccomanda la denuncia dei preti colpevoli alle autorità giudiziarie civili dei vari stati.
In conclusione, bisogna distinguere la fede nel Cristianesimo dal comportamento di alcuni preti criminali e colpevoli, che sono sempre esseri umani imperfetti e non sono certo la maggioranza. Bisogna auspicare, altresì, che tutta la Chiesa Cattolica tragga insegnamento da questi dolorosi fatti, tanto che nei prossimi conclavi prevalga l’ala progressista, meno dogmatica e dottrinale, e più consapevole che CRISTO si "è incarnato" e non che ha "spiritualizzato il corpo umano, che resta soggetto alla biologia".
Personalmente, rimango cristiana, ma auspico un ritorno del cristianesimo alle origini, ovvero a prima del Concilio di Nicea del 325, in cui veniva messo al primo posto il messaggio evangelico, consistente nell’amare il prossimo come se stessi, o meglio nel capire cosa fare per diventare prossimo per chi ne ha bisogno; e senza tutto il successivo apparato dottrinale e dogmatico, frutto dell’influenza della filosofia ellenistica, importata da Sant’Agostino e da San Tommaso d’Aquino.
Un caro saluto,
Alessandra


Caro Lorenzo,
Per capire di che cosa parliamo quando parliamo di pedofilia dobbiamo far riferimento al manuale di psichiatria DSM-IV. Intanto la pedofilia è un disturbo della sessualità, quindi è una malattia. Vediamo quali sono sostanzialmente i tre criteri che permettono di formulare una diagnosi per Pedofilia. 1. La persona con Pedofilia deve avere almeno 16 o più anni e deve essere almeno di 5 anni maggiore del bambino. 2. Deve aver avuto per un periodo di almeno 6 mesi fantasie, impulsi sessuali o comportamenti ricorrenti e intensamente eccitanti sessualmente che comportano attività sessuale con uno o più bambini prepuberi (generalmente di 13 anni o più piccoli). 3. La persona agisce in base a questi impulsi sessuali o gli impulsi o le fantasie sessuali le causano considerevole disagio o difficoltà interpersonali.
Siamo venuti a conoscenza, come dici tu, di molti casi in America (Canada, Stati Uniti e America Latina), in Europa e ultimamente anche in Italia. (L’ultimo numero della rivista MicroMega - 26 aprile 2010- riporta un elenco dei preti italiani che dal 1988 al 2010 sono stati condannati per abusi su minori). È vero, spesso è accaduto che la Chiesa invece di risolvere il problema, abbia evitato di affrontarlo, ne abbia negato l’esistenza o ne abbia ridimensionato considerevolmente la portata. Come molte persone hanno osservato recentemente sui quotidiani, lo scandalo peggiore è però consistito nella sistematica difesa ad oltranza da parte delle gerarchie ecclesiastiche delle persone coinvolte negli abusi e nella negazione pubblica dei reati. Nonostante le segnalazioni e le denunce i vescovi hanno cercato di risolvere i problemi cercando di non rivelare le notizie all’esterno o hanno omesso di denunciare chi ha compiuto questi orribili reati e spesso si sono limitati a risolvere il problema attraverso il semplice trasferimento da una parrocchia ad un’altra dei sacerdoti coinvolti. Ma hanno pensato troppo poco alle vittime, ai traumi che queste violenze hanno generato, ai turbamenti patiti, agli sconvolgimenti psicofisici dolorosi e forse indelebili che hanno segnato il vissuto dei più piccoli.
La Chiesa parla di verità e anche da essa ci aspettiamo verità. Altrimenti giustamente, come dici tu, perdiamo la fiducia negli uomini di Chiesa. In questi giorni (18 aprile 2010), sappiamo che il papa, incontrando le otto vittime maltesi di preti pedofili, ha detto: "Provo vergogna e dolore" e ha pianto con loro. Pare che la linea adottata dalla Chiesa, dopo qualche tentennamento, ora sia quella del rigore e della riflessione seria sul problema. Federico Lombardi, il direttore della sala stampa vaticana, ha detto che "Questo è tempo di verità, di trasparenza e di credibilità. […] Bisogna essere in grado di non avere nulla da nascondere", ed ha ancora aggiunto che "il prezzo che stiamo pagando ci dice che la nostra testimonianza deve essere nella linea del rigore e di rifiuto di ogni ipocrisia". Mi sembra che sia la strada giusta che la Chiesa deve percorrere.
Se, però, parliamo di fede in Dio, allora dobbiamo guardare oltre questi casi. Si crede in Dio e per chi è cattolico i sacerdoti hanno un ruolo particolare, quello di avvicinare gli uomini a Cristo, a Dio. Non sono supereroi, ma uomini; io da loro mi aspetto certamente coerenza, ma mi attendo soprattutto che la bussola della loro vita sia orientata dalla fede. Non mi aspetto neppure che la loro fede sia incrollabile, stabile o granitica, ma mi aspetto che sia onesta. I reati devono giustamente scandalizzare, essere accertati e condannati, ma non mi spaventano gli errori di altri uomini di chiesa e credo che non sia corretto basare la credenza o la non-credenza sulle azioni di qualche persona. Gli errori vanno compresi, circoscritti, arginati, ma non sono alcuni casi di persone con problemi per il credente a far perdere la fede. Chi ha fede non fonda la propria fede sulle debolezze dell’uomo, ma sulla fiducia in Dio. Lo scrittore latino Terenzio (165 a.C.) in una commedia dal titolo Heautontimorùmenos (Il punitore di se stesso, v. 77) scrive: Homo sum, humani nihil a me alienum puto (Sono un essere umano, nulla di umano mi è estraneo). Proprio così: le malattie vanno conosciute e curate, gli effetti negativi vanno contrastati, ma proprio perché conosciamo gli uomini, come direbbe Pascal, sia nella loro grandezza sia nella loro miseria, nulla di umano ci deve essere estraneo. Ma credere in Dio è ancora altra cosa.
Certo, gli episodi di cui veniamo a conoscenza possono mitigare la fiducia nella figura del sacerdote. Credo però che, arginati questi casi e avviato un percorso di riflessione sulla sessualità interno alla Chiesa, la sfiducia nei sacerdoti che tu segnali debba essere controbilanciata da uno sguardo più ampio verso la figura del sacerdote. Per questo ti consiglio un libro.
Verso la fine del 2009, Vittorino Andreoli, un grande psichiatra italiano, ha pubblicato un bellissimo studio sui preti (Preti. Un viaggio tra gli uomini del sacro, Piemme 2009). Poiché stimo lo psichiatra e il tema mi incuriosiva, l’ho comprato. E l’ho trovato bellissimo. È scritto con rispetto e con ammirazione verso la figura del sacerdote. Mostra tanti volti: le storie di vita, le fatiche, la solitudine, il coraggio, e la grande umanità di queste persone che hanno affidato la loro vita al sacro e che oggi sembrano talvolta un po’ fuori del mondo. Eppure credo che sia ancora anche grazie a questi uomini che molte persone trovano o ri-trovano un senso alla loro vita e valori preziosi per i quali vale la pena spenderla. Andreoli parla del sacro, della vocazione, dei bisogni e delle speranze, dei dubbi e della capacità di dono dei preti. Parla anche delle diverse tipologie di prete: dai sacerdoti di strada, ai preti di campagna a quelli del carcere. Parla della santità e degli scandali e alla fine sembra non voler terminare il lungo viaggio intrapreso. Dice persino che lo psichiatra ha affinità con il prete: “Entrambi si occupano di anime: le ascoltano, le curano e, in qualche modo, ne condividono il dolore…La Chiesa vuole che i sacerdoti siano santi, io da psichiatra vorrei che fossero sereni e, almeno alcune volte, felici”. È un bel viaggio nei molteplici aspetti della vita sacerdotale. Se qualche prete ha dato scandalo e ha aumentato la lontananza di qualche fedele, in questo libro troverai altri volti di sacerdoti e le ragioni per cui (non solo) chi crede ha buoni motivi per avere fiducia in questi uomini del sacro.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 19 aprile 2010

ll destino


Vedendo il film “Final destination” mi sono sorti diversi dubbi. Questo film parla del destino di ognuno di noi in maniera abbastanza particolare: spiega e mette in azione come tutti abbiamo già prefissata la nostra morte attraverso un ciclo universale. Nessuno riesce ad evitare la morte anche chiudendosi in casa senza oggetti pericolosi, quando è il nostro momento la vita finisce. È possibile l’esistenza di questo ciclo " particolare "? E se esiste è possibile conoscere il nostro destino come succede nel film? E conoscere il nostro destino è preferibile oppure no?
Elisa


Cara Elisa,
Martin Heidegger è stato il pensatore che in epoca moderna meglio ha tematizzato il concetto di destino. È nel suo saggio Essere e tempo, pubblicato nel 1927, che il termine riceve una prima formulazione definita, ma anche nella sua riflessione posteriore il concetto riceve delle elaborazioni molto importanti, in una prospettiva che va però oltre l'esistenzialismo, e che, passando per il suo nuovo concetto di ontologia si carica anche di suggestioni mistiche estremamente importanti e suggestive.
Per quanto riguarda l'uomo, l'idea di destino sembra infatti più corrispondere, psicologicamente, al nostro modo d'essere. Destino quindi determinato dalle scelte che facciamo, dettate dal carattere; dalla scelta che altri di noi fanno, che può quindi condizionare il nostro futuro, dettata dalla nostra fisionomia caratteriale.
Diversa è la visone di Carl Gustav Jung: “Fin da principio avvertii la presenza del destino, come se la vita fosse un compito da assolvere assegnatomi dal fato: ciò mi dava un intimo senso di sicurezza, che, sebbene non potessi mai trovarne ragione in me stesso, mi s’imponeva da sé. Non ero io ad avere questa certezza, era essa a possedermi.”
Il teologo Vito Mancuso, ci dice che "La storia della teologia cristiana presenta un dibattito spesso feroce e dagli esiti ancora oggi irrisolti in ordine al tema della libera decisione degli uomini a favore del bene. Emblematica al riguardo in ambito cattolico è la controversia de auxiliis che divise domenicani e gesuiti tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento e che si concluse con un nulla di fatto.
L’impossibilità di risolvere la questione a livello antropologico rimanda all’impossibilità ancora più conclamata della questione teologica vera e propria, ovvero della libertà che va attribuita all’Essere divino. Si tratta di un essere la cui essenza consiste nella perfetta libertas, oppure nella perfetta necessitas? L’enigma della libera decisione rimanda alla questione metafisica per eccellenza, “all’unico e comune bisogno di tutte le filosofie come di tutte le religioni: conquistare una rappresentazione di Dio, e poi della relazione di Dio e del mondo”
(Hegel, Enciclopedia, § 573).
Il libero arbitrio è il concetto filosofico e teologico secondo il quale ogni persona è libera di fare le sue scelte. Ciò si contrappone alle varie concezioni deterministiche secondo le quali la realtà è in qualche modo predeterminata (destino), per cui gli individui non possono compiere scelte perché ogni loro azione è predeterminata prima della loro nascita (predestinazione o servo arbitrio).
Il concetto di libero arbitrio ha implicazioni in campo religioso, etico e scientifico. In campo religioso il libero arbitrio implica che la divinità, per quanto onnipotente, scelga di non utilizzare il proprio potere per condizionare le scelte degli individui. Nell'etica questo concetto è alla base della responsabilità di un individuo per le sue azioni. In ambito scientifico l'idea di libero arbitrio determina un'indipendenza del pensiero inteso come attività della mente e della mente stessa dalla pura causalità scientifica.
Le posizioni sul problema filosofico del Libero Arbitrio sono semplificate in queste due possibilità:
1. Il determinismo è certo?
2. Esiste il libero arbitrio?
Il determinismo è l'idea che tutte le cose che accadono nel presente e nel futuro sono una conseguenza causata necessaria dagli eventi precedenti.
Il compatibilismo (anche detto determinismo morbito) crede che l'esistenza di libero arbitro sia compatibile con il fatto che l'universo sia deterministico, all'opposto l'incompatibilismo nega questa possibilità. Il determinismo forte è una versione dell'incompatibilismo che accetta che tutto sia determinato anche le azioni e la volontà umane. Il libertarismo (in inglese, Libertarianism) si accorda con il Determinismo forte solo nel rifiutare il compatibilismo; ma i libertari accettano l'esistenza di un certo libero arbitrio insieme con l'idea che esistano alcune cose indeterminate.
"La disputa intorno alla libertà dell'arbitrio umano, che tra il 1524 e il 1526 vede contrapposti Erasmo da Rotterdam e Martin Lutero, costituisce un momento decisivo nella storia del pensiero occidentale e della modernità. Nello scritto di Erasmo e nella risposta di Lutero viene infatti al pettine il nodo del rapporto tra due componenti essenziali della cultura della prima età moderna, ossia l'umanesimo e la Riforma protestante. Vi si confrontano due distinte concezioni della libertà: prerogativa inderogabile della ragione umana per Erasmo, dono divino inscindibile dalla grazia per Lutero."
Nella visione della mia scuola di pensiero, basata sull’evoluzione umana da individui solitari ed egoistici verso collettività altruistiche sociali (vedi i miei POST “Il Male e il Bene” http://apiuvoci2.blogspot.com/2010/01/il-bene-e-il-male-rev-1.html e “La solitudine” http://apiuvoci2.blogspot.com/2010/03/la-solitudine.html), questa lenta trasformazione può essere accelerata o meno da tante singole scelte di singoli individui umani. E, sotto questo aspetto, non ci allontaniamo molto da Martin Heidegger.
Qui sta la chiave, a nostro avviso, del LIBERO ARBITRIO. Un libero arbitrio di FARE SINGOLE SCELTE, che possono poi influire, anche pesantemente, sul NOSTRO DESTINO e sul DESTINO di altri uomini. Sotto un certo aspetto, siamo anche vicini alla visione cattolica del MALE che si serve della TENTAZIONE; ovvero noi, esseri umani, siamo sempre tentati dal nostro egoismo personale di ottenere benefici immediati e limitati, a discapito del bene della comunità a cui apparteniamo. E in questa visione, similare a quella cattolica, possiamo fare anche delle SCELTE PRELIMINARI; ovvero possiamo cercare, a priori, di fuggire le possibili tentazioni. Dobbiamo, cioè, essere consapevoli che non sempre, specialmente in certe situazioni specifiche, in cui l’emotività e le passioni possono prendere il sopravvento, siamo in grado di resistere ad esse.
Nel “PADRE NOSTRO” dei cattolici vi è la frase “NON CI INDURRE IN TENTAZIONE, MA LIBERACI DAL MALE”. Ebbene anche il PREGARE è un’azione di LIBERO ARBITRIO che ci rafforza, anche inconsciamente, nel perseguire le scelte ALTRUISTICHE, rifiutando quelle EGOISTICHE; a parte eventuali effetti inconsci e psicosomatici di influenza sugli altri, che possono modificare le scelte e il destino di altri uomini.
Nel terzo millennio, appare sempre più chiara l'interdipendenza delle scelte umane, specialmente per quando riguarda la minaccia di una guerra termonucleare, e la difesa dell'ambiente. Da qui il nostro dovere di adoperarci, con le nostre singole scelte, non solo per eliminare i TUMORI della collettività umana, ma anche per RIGENERARNE IL TESSUTO ALTRUISTICO SOCIALE. Quindi LIBERO ARBITRIO dei singoli che produce effetti limitati, ma soprattutto LIBERO ARBITRIO, democraticamente guidato, della comunità umana, chiamata sempre più a SCELTE RESPONSABILI, dalle conseguenze mondiali.
In conclusione, credo che il FUTURO non sia stato scritto in modo DEFINITIVO, e si può sempre, ma LIMITATAMENTE, modificare con il nostro LIBERO ARBITRIO, singolo e collettivo.
Un caro saluto,
Alessandra


Cara Elisa,
“Le Moire prendono questo nome dalla divisione che esse attuano: sono Cloto, Lachesi e Atropo. Lachesi ha questo nome perché distribuisce con equità la sorte che ciascuno ha ottenuto. Atropo si chiama così perché la definizione - delle sorti - è dall’eternità definitivamente fissata. Infine Cloto prende il suo nome dal fatto che la distribuzione degli eventi secondo il destino si compie non diversamente dal movimento dei fusi.” (Stoici antichi. Tutti i frammenti, Rusconi 1999). Nella versione più popolare Cloto prepara il filamento della vita, Lachesi lo svolge sul fuso e Atropo ne fissa la lunghezza. Per gli Stoici ogni cosa avviene secondo il destino (il fato, la necessità) che è la ragione stessa della trasformazione del cosmo, del rinnovamento della natura, del mutamento di ogni cosa che avviene nel mondo (Non bisogna dimenticare che le Moire sono figlie di Ananke, Ἀνάγκη, ossia della Necessità). Il fato indica che ogni cosa accade secondo una causa, cioè secondo un ordine, una successione. Le cose si sviluppano non secondo ciò che è utile, appropriato, favorevole, per una persona o per un’altra, ma secondo un ordine preciso e necessario. Il fato allora non è tanto una certa disposizione degli astri al momento della nascita (come è anche inteso dai cinesi), ma è la concatenazione delle cause universali. Neppure gli dei, infatti, possono infrangere le leggi naturali. L’idea che sia possibile conoscere il nostro destino come succede nel film che hai citato è un’idea molto antica. Gli antichi avevano creato la mantica, ossia l’arte di predire il futuro. Se tutto infatti è conforme al destino, e segue delle cause, allora conoscendo alcuni processi si possono prevedere effetti a lunga distanza, si possono cioè anticipare le cose future. Per gli Stoici le due cose vanno insieme: se non esistesse il fato le previsioni sarebbero impossibili, e affinché le previsioni siano valide occorre ammettere che tutto avvenga secondo necessità.
Consideriamo alcune visioni del destino: la prima, in cui il rapporto di causa-effetto è vincolato necessariamente; la seconda, in cui si intende la causa solo come principio di qualcosa. Vediamo.
1. Se ogni cosa ha una causa, allora tutto è determinato.
Questa idea fa riferimento all’effetto domino. Come nel domino, infatti, ogni tassello ne spinge un altro. La causa è precisa e senza di essa non esiste spostamento. Se osserviamo dall’alto un grande modello di domino, possiamo anche intravedere nel mutamento continuo e veloce dei tasselli che cadono una particolare figura, un disegno. Sappiamo però che quel disegno è stato preordinato, che è ben visibile dall’alto, ma che è ignoto alle singole pedine. Se immaginiamo il destino in questo modo, facciamo riferimento ad un nesso di causa che implica un disegno finale. Secondo questa visione, se potessimo conoscere tutte le cause che agiscono su di noi in un determinato momento potremmo prevedere le nostre azioni. Questa idea, applicata alla storia, ha fatto pensare che il futuro fosse (pre)determinato dal passato in modo meccanicistico (E così anche che la morte di ciascun uomo fosse già fissata alla nascita).
Un’altra versione, diciamo meno rigida, di questa ipotesi ritiene invece che il destino di una persona consista nel seguire un sentiero probabile, magari connaturato con la natura stessa del soggetto. Dire che una vita è orientata dal destino significa, in questo caso, ritenere che una vita segue un solco che è determinato dalla natura della persona o dal proprio carattere. In questo senso usiamo ad esempio alcune espressioni sia riferite agli oggetti sia all’uomo. Ad esempio: questi prodotti sono destinati al mercato estero, questi uomini in guerra sono destinati a morire, queste merci sono destinate a durare poco, una nave sovraccarica di petrolio in mare è destinata a una sorte incerta. Questo perché ogni cosa viene progettata secondo un invio, un progetto. Ogni cosa dunque contiene in sé una destinazione. Potremmo chiederci qual è il destino di una persona che non fa nulla per curare l’obesità, di un ragazzo che non studia, di uno che non fa sport, ma anche il destino di una società consumistica, ecc. In questo caso reiterare determinate scelte può orientare il destino, ossia il sentiero che va verso il futuro, sia di una persona sia di una società. Infiniti comportamenti replicati possono condurre ad un avvenire relativamente scontato.
In questa prima versione il destino implica - nel primo caso - la negazione della libertà, oppure un tracciato fortemente condizionato dalla natura stessa delle persone. Ma nella vita, ognuno sa che nell’ambito delle possibilità che gli sono offerte, può decidere di orientare almeno un po’ il proprio futuro. In questo caso (2) la causa è intesa solo come “principio”.
Infatti non tutto ciò che ha una causa è anche ineluttabilmente assoggettato ad essa. È possibile intendere la “causa” non solo con effetto che vincola necessariamente due elementi tra di loro, ma anche semplicemente come principio di qualcosa. La causa allora può essere considerata il punto da cui si origina un percorso. Dire che i genitori sono la causa necessaria della vita di ciascuno di noi, non significa che a partire da questa condizione la vita sia determinata. Il destino può essere ovviamente anche fortemente condizionato (è probabile che una persona nata in una famiglia povera abbia meno possibilità di proseguire gli studi per molto tempo), ma è disegnato, di volta in volta, dall’intenzionalità del soggetto e dalle sue scelte, in mezzo a mille condizioni interne ed esterne (stati d’animo, desideri, posizione sociale, occasioni presenti nell’ambiente e nel lavoro, e molto altro). In questo caso, però, il destino è anche determinato dal pro-getto di ciascuno. Pro-gettare significa “gettare in avanti”. Ogni persona in vari momenti della propria vita “getta in avanti” il proprio possibile percorso e tenta di perseguire certi risultati. Ad ogni tappa importante, o semplicemente quando lo ritiene opportuno, però, può riconsiderare l’intero progetto, e in base ad una nuova valutazione orientarsi in un modo o in un altro, tenendo conto delle nuove abilità conseguite, delle opportunità che in un certo momento si aprono, della propria ri-considerazione della vita.
Il destino è dunque una relazione con il futuro e non solo con il passato: siamo destinati al futuro, ma il futuro non è definito inevitabilmente, perché con esso siamo sempre in relazione. Se fossimo degli oggetti, allora sarebbe sufficiente una causa fisica per produrre il nostro movimento. Ma il modo di stare al mondo dell’uomo è diverso. Heidegger avrebbe detto che non è come lo stare dell’acqua nel bicchiere, ma è “relazione” con il mondo. In questa relazione formiamo noi stessi, il senso che attribuiamo alle cose, alla vita e il nostro progetto. Progettare però non significa che tutto sia possibile, ma che nonostante gli ostacoli desideriamo avviare la nave della nostra vita in una certa direzione, tra mareggiate che disorientano, difficoltà che sviano e venti favorevoli.
Ci sono destinazioni temporanee e destinazioni finali. Ad esempio il destino di un oggetto può essere vario, può passare di mano in mano ed essere utilizzato per scopi diversi, ma a distanza di tempo il suo destino finale, molto probabilmente, è la discarica. E l’uomo? Anche se la destinazione finale dell’uomo è la morte, sono però le continue scelte a generare il suo destino. La necessità allora non è tanto all’origine della vita, ma nelle scelte ripetute. La ripetizione può tracciare un percorso che diventa inevitabile o che è destinato a verificarsi. Anche se non conosciamo in che modo né in quale momento lasceremo la vita, abbiamo la possibilità di scegliere se i nostri vari approdi sono delle mete transitorie o definitive, passaggi o destini.
Un caro saluto,
alberto

lunedì 12 aprile 2010

Di fronte alla malattia


La mia famiglia, circa un anno e mezzo fa, ha dovuto affrontare un grave problema. Mia mamma in seguito ad un'operazione si è ritrovata di fronte ad una delle più gravi malattie del nostro secolo: il cancro. Al contrario di quanto fa la maggior parte della gente, mia mamma invece di abbattersi e di piangere su se stessa ha tirato fuori una grande (apparente, dal mio punto di vista) serenità; forza, coraggio e voglia di vivere. Grazie a ciò abbiamo passato 3 operazioni e mesi e mesi di chemioterapia in maniera assolutamente normale. La domanda che mi pongo adesso è: perché voglio portare all'esame un tema così profondo e difficile e quindi ricordare questo momento da dimenticare anziché lasciare tutto alle spalle? La ringrazio,
Elisabetta


Cara Elisabetta,
da tempo, è noto che esiste l’effetto placebo. Per effetto placebo si intende una serie di reazioni dell'organismo ad una terapia, non derivanti dai principi attivi insiti dalla terapia stessa, ma dalle attese dell'individuo. In altre parole, l'effetto placebo è una conseguenza del fatto che il paziente, specie se favorevolmente condizionato dai benefici di un trattamento precedente, si aspetta o crede che la terapia funzioni, indipendentemente dalla sua efficacia "specifica". L'effetto placebo contribuisce non poco anche all'efficacia di una terapia specificamente attiva. L'effetto placebo è fortemente influenzato da una serie di variabili soggettive quali la personalità e l'atteggiamento del medico (iatroplacebogenesi) nonché le aspettative del paziente.
Il meccanismo alla base dell'effetto placebo è "psicosomatico" nel senso che il sistema nervoso, in risposta al significato pieno di attese dato alla terapia placebica prescrittagli, induce modificazioni neurovegetative e produce una serie numerosa di endorfine, ormoni, mediatori, capaci di modificare la sua percezione del dolore, i suoi equilibri ormonali, la sua risposta cardiovascolare e la sua reazione immunitaria.
Ci sono al riguardo posizioni più radicali negative e altre più conciliative, secondo le quali l'uso del placebo è ammissibile anche in questo caso, ma condicio sine qua non è che: 1) i soggetti avviati a trattamento con placebo abbiano dato ad hoc un consenso libero e adeguatamente informato e 2) che la non erogazione di un trattamento efficace già disponibile non comporti comunque pericoli o conseguenze gravi.
È tuttavia plausibile sostenere che nell'effetto placebo entrino in gioco molteplici fattori, tra questi:
• fattori biologici (ad es. le endorfine che medierebbero l'effetto antalgico placebo)
• suggestione e l'autosuggestione
In definitiva, il placebo, sebbene mal definibile in termini di causazione, può essere inteso come un insieme di fattori extrafarmacologici capaci di indurre modificazioni dei processi, anche biologici, di guarigione intervenendo a livello del sistema psichico: non per nulla molti autori considerano quasi sinonimi i termini placebo e suggestione.
Proprio per quanto riguarda i tumori, vi sono infiniti casi di auto guarigione psicosomatica; per cui associare la medicina tradizionale e la chemioterapia a un ottimismo personale o ad una fede di guarire, è senza dubbio un ottimo metodo.
La verità è che noi CONOSCIAMO ANCORA MOLTO POCO LE POTENZIALITA’ DI AUTOGUARIGIONE DEL NOSTRO CORPO; e recentemente ne abbiamo avuto una prova sconvolgente, con la soluzione di UN MISTERO DELLA BIOLOGIA. Mi riferisco a un articolo di LE SCIENZE del 17 Marzo 2010:
E’ stato scoperto che nel gene p21 vi è il segreto della rigenerazione tissutale.
Una ricerca durata oltre un decennio ha dato luogo a una scoperta fondamentale per la biologia: un gene che regola la rigenerazione dei tessuti nei mammiferi. L'assenza di questo singolo gene, denominato p21, conferisce ai topi ingegnerizzati una capacità ritenuta finora perduta nel corso dell'evoluzione, e riservata a organismi come vermi piatti, spugne e alcune specie di salamandre: la rigenerazione di tessuti danneggiati.
In un articolo ora pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences, i ricercatori del Wistar Institute riferiscono di come la mancanza di tale gene consenta ai topi di formare un blastema, una struttura associata a una crescita cellulare e a una differenziazione rapide, come si osserva negli anfibi. Secondo gli autori dello studio, la mancanza del gene induce le cellule a comportarsi in modo simile a cellule embrionali più che a cellule adulte, e fornisce la prova della correlazione tra rigenerazione tissutale e controllo della divisione cellulare.
"Proprio come un tritone che ha perso una zampa, questo topo è in grado di sostituire il tessuto mancante con tessuto sano senza alcun segno di cicatrice”, ha spiegato Ellen Heber-Katz, che ha coordinato lo studio. "Solo ora stiamo cominciando a comprendere le conseguenze di questi risultati: la speranza è quella di arrivare un giorno ad accelerare la guarigione dei tessuti negli esseri umani inattivando temporaneamente il gene p21.”

Heber-Katz e colleghi hanno utilizzato un topo con gene p21 knockout per cercare di risolvere un un mistero incontrato per la prima volta nel 1996 nel suo laboratorio, che riguarda un altro ceppo di topi. I topi MRL, oggetto di un esperimento sull'autoimmunità, venivano infatti marcati con un foro nell'orecchio. Poche settimane dopo i ricercatori notavano però che i fori scomparivano senza traccia. Ciò ha portato i ricercatori a porsi una questione: i topi MRL potevano essere un finestra di capacità rigenerativa tra i mammiferi?
Si è così scoperto che il gene p21, un regolatore dei ciclo cellulare, era virtualmente inattivo nelle cellule delle orecchie dei topo MRL. L'espressione del gene P21 è strettamente regolata dal soppressore tumorale p53, un altro regolatore della divisione cellulare in molte forme di cancro. L'esperimento finale era diretto a dimostrare che un topo mancante di p21 avrebbe avuto una risposta rigenerativa simile a quella osservata nel topo MRL, e così è stato.
"Nelle cellule normali, il gene p21 funziona come un freno, che blocca la progressione del ciclo cellulare nel caso di danno al DNA, impedendo alla cellula di dividersi e di diventare potenzialmente cancerosa”, ha commentato Heber-Katz. "In questo topo senza p21, abbiamo effettivamente osservato l'atteso incremento nel danno genomico, ma sorprendentemente non si è registrato alcun aumento di cancro”.
In effetti, i ricercatori hanno osservato nel topo MRL un aumento dell'apoptosi, il processo di morte programmata, che viene spesso attivata quando il DNA è stato danneggiato. Secondo, Heber-Katz, è proprio questo tipo di processo quello alla base della capacità rigenerativa.
"L'effetto combinato di un incremento di cellule altamente rigenerative e dell'apoptosi può permettere alle cellule di questi organismi di dividersi rapidamente senza andare fuori controllo e senza diventare cancerose", ha concluso Heber-Katz. "In effetti, è simile a ciò che si osserva negli embrioni dei mammiferi, in cui il gene p21 è inattivo in seguito a un danno al DNA. La regolazione del p21 promuove lo stato pluripotente indotto nelle cellule dei mammiferi, chiarendo una correlazione tra cellule staminali, rigenerazione tissutale e ciclo cellulare.”
Tutto questo potrebbe spiegare, in modo biologico, molte guarigioni ritenute miracolose, dovute a rigenerazione di tessuti (come ad esempio la scomparse delle stimmate in alcuni mistici) e casi inspiegabili secondo la medicina tradizionale. Basterebbe, ad esempio, che per questioni psicosomatiche inconsce, si blocchi temporaneamente il gene p21.
In conclusione, la forza di volontà di guarire, per fiducia personale o indotta dal medico (o anche per fede religiosa) è MOLTO SPESSO un valido AIUTO. L’errore sarebbe affidarsi solo alla psicosomatica, trascurando la medicina tradizionale, proprio perché non conosciamo ancora bene tutti i processi psicosomatici, influenzati da molti singoli fattori, spesso personali.
Ritornando, infine, al motivo del perché della tua lettera, non escludo che tu l’abbia fatta per altruismo; ovvero per dare un ennesimo esempio che “la serenità, la fede, la forza, il coraggio e voglia di vivere” sono tutti elementi psicosomatici che ci possono aiutare nelle gravi malattie.
Un caro saluto,
Alessandra


Cara Elisabetta,
Quando all’inizio dell’anno scolastico, in libreria, mi hai parlato del tuo desiderio di fare una tesina sui tumori e mi hai mostrato il libro di Umberto Veronesi (L’uomo con il camice bianco, Rizzoli 2009) che tenevi tra le mani, conoscendo l’esperienza sconvolgente che stavi attraversando ho cercato di dissuaderti dalla scelta della tematica e di orientarti su una materia diversa che potesse anche per poco allontanare i tuoi pensieri da un vissuto così amaro. Pensavo che fosse necessario dislocare le riflessioni dal centro gravitazionale della malattia, per far prendere una boccata di ossigeno al tuo umore e ai tuoi pensieri, per attutire la tristezza, per evitare di scavare a fondo negli abissi del dolore in un momento in cui anche il corpo è indebolito, talvolta stremato, da ciò che è costretto ad apprendere e a vedere quotidianamente. Temevo che un eccesso di sofferenza potesse nuocerti e che fosse un peso insostenibile. Pensavo che una temporanea rimozione fosse pertanto un rimedio al dolore. Ma tu hai deciso di affrontare la malattia, e l’unico modo efficace di affrontarla è stato quello di guardarla negli occhi, di comprenderne le modalità di insorgenza e l’evoluzione. La conoscenza in fondo diminuisce l’angoscia, perché riduce la brutalità dell’imprevisto. Se l’imprevisto diventa in qualche modo pre-vedibile, visibile anticipatamente, è possibile mettere in atto difese adeguate e contromisure sia nei pensieri sia nelle azioni. Pensieri non dominati dalla paura, non soffocati dal dolore e azioni positive da intraprendere nei confronti di te stessa e dei tuoi familiari. Sei venuta a conoscenza in giovane età della tragicità della vita, ossia che la morte non è un momento lontano e leggero, un dolce commiato dal mondo nella vecchiaia, un lento e progressivo congedarsi dalla vita, ma è un elemento quotidianamente presente; che contro la morte si lotta continuamente in modo più o meno evidente e non solo nei momenti finali dell’esistenza, ossia in quel tempo particolare detto dell’agonia, che è una vera e propria lotta (agon) che la vita instaura con la morte, fino all’ultimo respiro.
L’energia vitale presente in ciascuno di noi è però un desiderio fortissimo di opporsi al male, di resistere alla morte e alla sua ineluttabilità, di arginare la sofferenza e tutto ciò che riduce l’attività, il dinamismo o paralizza la propria biografia. Per non essere privati della nostra umanità, dobbiamo pertanto reagire al dolore, imparare ad arginare ciò che ci distrugge; dobbiamo evitare di essere in balìa degli eventi e di essere sovrastati da circostanze avverse. La nostra umanità sta anche lì, nella capacità di avvicinarci al dolore, con un occhio alla persona amata e l’altro rivolto ai rimedi e alle difese che ci aiutano a ostacolare la sventura. Il coraggio permette di avvicinarci anche a chi soffre, ad infondere speranza. All’inizio pensavo che un’eccessiva vicinanza alla sofferenza fosse una conseguenza della debolezza psicofisica in cui ci veniamo a trovare quando siamo colpiti da un forte dolore, ma dimenticavo che avvicinarsi alla sofferenza può significare esattamente l’opposto: avere sviluppato una forza di reazione per difendere la vita e la sua qualità. Credo che il tuo atteggiamento sia dunque stato profondamente maturo e saggio almeno per due ragioni: 1. Conoscere è un modo per misurarsi con il male e per contrastarlo; 2. Conoscere è un modo per stare vicini e per amare. Solo chi conosce il male che lo affligge è in grado di affrontarlo in modo razionale e di frenarlo; e solo chi conosce bene una nuova condizione della vita può comprendere meglio la persona ammalata. Interessarsi al problema è segno di amore, perché nell’attenzione si dimostra un grande attaccamento alla persona amata perché, invece di fuggire il problema, ci si unisce per combattere il male.
Questa tua azione, dunque, è estremamente coraggiosa. Il filosofo italiano Salvatore Natoli mi ha ricordato una cosa molto bella: che il coraggio è una sofferenza che si coniuga con una forza e che spesso amore e dolore oscillano uno nell’altro. Così scrive: “Il coraggio somiglia alla malattia d'amore, come follia dolce e dolorosa: ad ogni modo, è una sofferenza che si coniuga con la forza.”[…] “molte volte amore e dolore trapassano l'uno nell'altro: in fondo, si regge nel dolore perché c'è profondo amore, e si soffre nell'amore perché si è esposti alla perdita e così al dolore”. E qual è la virtù che si sviluppa nel dolore? Natoli scrive che: “la virtù consiste nel commisurarsi alla necessità e nel tenervi testa.”[…] “Tener testa alla necessità non sarà coraggioso, ma col coraggio ha almeno un tratto in comune: il non cedere alla paura. Per questa ragione reggere nel dolore ed essere coraggiosi sono comportamenti contrassegnati da una forte analogia. Quest'analogia meglio si specifica se si pensa che per reggere nel dolore bisogna guadagnare una consuetudine positiva con esso e perciò stesso una medietà ed un abito. Tener testa al dolore è virtù, poiché saper soffrire equivale alla medietà tra disperazione e illusione. Né perire con il proprio male, né rimuoverlo fino al punto da lasciarsi ingannare: nell'un caso e nell'altro si ha a che fare con un perdersi, poiché si abdica alla propria identità. Né cedere, né sublimarsi, ma aderire alle esigenze del presente, cercando le vie utili per svincolarsi dalla necessità.” (L’esperienza del dolore, Feltrinelli 2002). La conoscenza permette dunque di avvicinarsi al dolore e di reggerlo. Per vincere il dolore bisogna però aver guadagnato una “consuetudine positiva con esso”, una prossimità: per questo conoscenza e amore sono gli strumenti adeguati per non cedere e per vivere pienamente. Aristotele diceva che il coraggio è la via giusta tra i due estremi: la temerarietà e la viltà. “chi fugge e teme ogni cosa e nulla affronta diviene timido, chi invece non teme proprio nulla, ma va contro ogni cosa diviene temerario”. Il temerario è l’incosciente, il dissennato, colui che mette a rischio inutilmente la propria vita; il vile è colui che rinuncia e, pauroso di tutto, è codardo e debole. Ma l’eccesso e il difetto rovinano le persone, la virtù invece è il giusto rapporto che si instaura con gli eventi: coraggio, forza d’animo e risolutezza sono strumenti indispensabili per affrontare i problemi. Infatti, scrive Aristotele: “abituandoci a disprezzare i pericoli e ad affrontarli, diventiamo coraggiosi, e soprattutto quando siamo divenuti tali siamo in grado di sopportare i pericoli.”
Il tuo coraggio consiste nel voler affrontare il problema, consapevole che è rischioso addentrarsi nei meandri della sofferenza e della malattia. Ma l’abitudine ad affrontare i problemi rende coraggiosi e in grado di sopportare i pericoli. Sopportare, resistere alla paura, sostenere il peso della difficoltà, non concedere alla sofferenza di lacerare la nostra energia. La persona impulsiva non è coraggiosa e neppure è coraggioso chi fugge. Coraggioso è chi ha la forza di affrontare la vita, perché, come dice il filosofo: “l’ardire è proprio di chi ha speranza” (Etica nicomachea, Laterza 2005).
Un caro saluto,
Alberto