lunedì 12 aprile 2010

Di fronte alla malattia


La mia famiglia, circa un anno e mezzo fa, ha dovuto affrontare un grave problema. Mia mamma in seguito ad un'operazione si è ritrovata di fronte ad una delle più gravi malattie del nostro secolo: il cancro. Al contrario di quanto fa la maggior parte della gente, mia mamma invece di abbattersi e di piangere su se stessa ha tirato fuori una grande (apparente, dal mio punto di vista) serenità; forza, coraggio e voglia di vivere. Grazie a ciò abbiamo passato 3 operazioni e mesi e mesi di chemioterapia in maniera assolutamente normale. La domanda che mi pongo adesso è: perché voglio portare all'esame un tema così profondo e difficile e quindi ricordare questo momento da dimenticare anziché lasciare tutto alle spalle? La ringrazio,
Elisabetta


Cara Elisabetta,
da tempo, è noto che esiste l’effetto placebo. Per effetto placebo si intende una serie di reazioni dell'organismo ad una terapia, non derivanti dai principi attivi insiti dalla terapia stessa, ma dalle attese dell'individuo. In altre parole, l'effetto placebo è una conseguenza del fatto che il paziente, specie se favorevolmente condizionato dai benefici di un trattamento precedente, si aspetta o crede che la terapia funzioni, indipendentemente dalla sua efficacia "specifica". L'effetto placebo contribuisce non poco anche all'efficacia di una terapia specificamente attiva. L'effetto placebo è fortemente influenzato da una serie di variabili soggettive quali la personalità e l'atteggiamento del medico (iatroplacebogenesi) nonché le aspettative del paziente.
Il meccanismo alla base dell'effetto placebo è "psicosomatico" nel senso che il sistema nervoso, in risposta al significato pieno di attese dato alla terapia placebica prescrittagli, induce modificazioni neurovegetative e produce una serie numerosa di endorfine, ormoni, mediatori, capaci di modificare la sua percezione del dolore, i suoi equilibri ormonali, la sua risposta cardiovascolare e la sua reazione immunitaria.
Ci sono al riguardo posizioni più radicali negative e altre più conciliative, secondo le quali l'uso del placebo è ammissibile anche in questo caso, ma condicio sine qua non è che: 1) i soggetti avviati a trattamento con placebo abbiano dato ad hoc un consenso libero e adeguatamente informato e 2) che la non erogazione di un trattamento efficace già disponibile non comporti comunque pericoli o conseguenze gravi.
È tuttavia plausibile sostenere che nell'effetto placebo entrino in gioco molteplici fattori, tra questi:
• fattori biologici (ad es. le endorfine che medierebbero l'effetto antalgico placebo)
• suggestione e l'autosuggestione
In definitiva, il placebo, sebbene mal definibile in termini di causazione, può essere inteso come un insieme di fattori extrafarmacologici capaci di indurre modificazioni dei processi, anche biologici, di guarigione intervenendo a livello del sistema psichico: non per nulla molti autori considerano quasi sinonimi i termini placebo e suggestione.
Proprio per quanto riguarda i tumori, vi sono infiniti casi di auto guarigione psicosomatica; per cui associare la medicina tradizionale e la chemioterapia a un ottimismo personale o ad una fede di guarire, è senza dubbio un ottimo metodo.
La verità è che noi CONOSCIAMO ANCORA MOLTO POCO LE POTENZIALITA’ DI AUTOGUARIGIONE DEL NOSTRO CORPO; e recentemente ne abbiamo avuto una prova sconvolgente, con la soluzione di UN MISTERO DELLA BIOLOGIA. Mi riferisco a un articolo di LE SCIENZE del 17 Marzo 2010:
E’ stato scoperto che nel gene p21 vi è il segreto della rigenerazione tissutale.
Una ricerca durata oltre un decennio ha dato luogo a una scoperta fondamentale per la biologia: un gene che regola la rigenerazione dei tessuti nei mammiferi. L'assenza di questo singolo gene, denominato p21, conferisce ai topi ingegnerizzati una capacità ritenuta finora perduta nel corso dell'evoluzione, e riservata a organismi come vermi piatti, spugne e alcune specie di salamandre: la rigenerazione di tessuti danneggiati.
In un articolo ora pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences, i ricercatori del Wistar Institute riferiscono di come la mancanza di tale gene consenta ai topi di formare un blastema, una struttura associata a una crescita cellulare e a una differenziazione rapide, come si osserva negli anfibi. Secondo gli autori dello studio, la mancanza del gene induce le cellule a comportarsi in modo simile a cellule embrionali più che a cellule adulte, e fornisce la prova della correlazione tra rigenerazione tissutale e controllo della divisione cellulare.
"Proprio come un tritone che ha perso una zampa, questo topo è in grado di sostituire il tessuto mancante con tessuto sano senza alcun segno di cicatrice”, ha spiegato Ellen Heber-Katz, che ha coordinato lo studio. "Solo ora stiamo cominciando a comprendere le conseguenze di questi risultati: la speranza è quella di arrivare un giorno ad accelerare la guarigione dei tessuti negli esseri umani inattivando temporaneamente il gene p21.”

Heber-Katz e colleghi hanno utilizzato un topo con gene p21 knockout per cercare di risolvere un un mistero incontrato per la prima volta nel 1996 nel suo laboratorio, che riguarda un altro ceppo di topi. I topi MRL, oggetto di un esperimento sull'autoimmunità, venivano infatti marcati con un foro nell'orecchio. Poche settimane dopo i ricercatori notavano però che i fori scomparivano senza traccia. Ciò ha portato i ricercatori a porsi una questione: i topi MRL potevano essere un finestra di capacità rigenerativa tra i mammiferi?
Si è così scoperto che il gene p21, un regolatore dei ciclo cellulare, era virtualmente inattivo nelle cellule delle orecchie dei topo MRL. L'espressione del gene P21 è strettamente regolata dal soppressore tumorale p53, un altro regolatore della divisione cellulare in molte forme di cancro. L'esperimento finale era diretto a dimostrare che un topo mancante di p21 avrebbe avuto una risposta rigenerativa simile a quella osservata nel topo MRL, e così è stato.
"Nelle cellule normali, il gene p21 funziona come un freno, che blocca la progressione del ciclo cellulare nel caso di danno al DNA, impedendo alla cellula di dividersi e di diventare potenzialmente cancerosa”, ha commentato Heber-Katz. "In questo topo senza p21, abbiamo effettivamente osservato l'atteso incremento nel danno genomico, ma sorprendentemente non si è registrato alcun aumento di cancro”.
In effetti, i ricercatori hanno osservato nel topo MRL un aumento dell'apoptosi, il processo di morte programmata, che viene spesso attivata quando il DNA è stato danneggiato. Secondo, Heber-Katz, è proprio questo tipo di processo quello alla base della capacità rigenerativa.
"L'effetto combinato di un incremento di cellule altamente rigenerative e dell'apoptosi può permettere alle cellule di questi organismi di dividersi rapidamente senza andare fuori controllo e senza diventare cancerose", ha concluso Heber-Katz. "In effetti, è simile a ciò che si osserva negli embrioni dei mammiferi, in cui il gene p21 è inattivo in seguito a un danno al DNA. La regolazione del p21 promuove lo stato pluripotente indotto nelle cellule dei mammiferi, chiarendo una correlazione tra cellule staminali, rigenerazione tissutale e ciclo cellulare.”
Tutto questo potrebbe spiegare, in modo biologico, molte guarigioni ritenute miracolose, dovute a rigenerazione di tessuti (come ad esempio la scomparse delle stimmate in alcuni mistici) e casi inspiegabili secondo la medicina tradizionale. Basterebbe, ad esempio, che per questioni psicosomatiche inconsce, si blocchi temporaneamente il gene p21.
In conclusione, la forza di volontà di guarire, per fiducia personale o indotta dal medico (o anche per fede religiosa) è MOLTO SPESSO un valido AIUTO. L’errore sarebbe affidarsi solo alla psicosomatica, trascurando la medicina tradizionale, proprio perché non conosciamo ancora bene tutti i processi psicosomatici, influenzati da molti singoli fattori, spesso personali.
Ritornando, infine, al motivo del perché della tua lettera, non escludo che tu l’abbia fatta per altruismo; ovvero per dare un ennesimo esempio che “la serenità, la fede, la forza, il coraggio e voglia di vivere” sono tutti elementi psicosomatici che ci possono aiutare nelle gravi malattie.
Un caro saluto,
Alessandra


Cara Elisabetta,
Quando all’inizio dell’anno scolastico, in libreria, mi hai parlato del tuo desiderio di fare una tesina sui tumori e mi hai mostrato il libro di Umberto Veronesi (L’uomo con il camice bianco, Rizzoli 2009) che tenevi tra le mani, conoscendo l’esperienza sconvolgente che stavi attraversando ho cercato di dissuaderti dalla scelta della tematica e di orientarti su una materia diversa che potesse anche per poco allontanare i tuoi pensieri da un vissuto così amaro. Pensavo che fosse necessario dislocare le riflessioni dal centro gravitazionale della malattia, per far prendere una boccata di ossigeno al tuo umore e ai tuoi pensieri, per attutire la tristezza, per evitare di scavare a fondo negli abissi del dolore in un momento in cui anche il corpo è indebolito, talvolta stremato, da ciò che è costretto ad apprendere e a vedere quotidianamente. Temevo che un eccesso di sofferenza potesse nuocerti e che fosse un peso insostenibile. Pensavo che una temporanea rimozione fosse pertanto un rimedio al dolore. Ma tu hai deciso di affrontare la malattia, e l’unico modo efficace di affrontarla è stato quello di guardarla negli occhi, di comprenderne le modalità di insorgenza e l’evoluzione. La conoscenza in fondo diminuisce l’angoscia, perché riduce la brutalità dell’imprevisto. Se l’imprevisto diventa in qualche modo pre-vedibile, visibile anticipatamente, è possibile mettere in atto difese adeguate e contromisure sia nei pensieri sia nelle azioni. Pensieri non dominati dalla paura, non soffocati dal dolore e azioni positive da intraprendere nei confronti di te stessa e dei tuoi familiari. Sei venuta a conoscenza in giovane età della tragicità della vita, ossia che la morte non è un momento lontano e leggero, un dolce commiato dal mondo nella vecchiaia, un lento e progressivo congedarsi dalla vita, ma è un elemento quotidianamente presente; che contro la morte si lotta continuamente in modo più o meno evidente e non solo nei momenti finali dell’esistenza, ossia in quel tempo particolare detto dell’agonia, che è una vera e propria lotta (agon) che la vita instaura con la morte, fino all’ultimo respiro.
L’energia vitale presente in ciascuno di noi è però un desiderio fortissimo di opporsi al male, di resistere alla morte e alla sua ineluttabilità, di arginare la sofferenza e tutto ciò che riduce l’attività, il dinamismo o paralizza la propria biografia. Per non essere privati della nostra umanità, dobbiamo pertanto reagire al dolore, imparare ad arginare ciò che ci distrugge; dobbiamo evitare di essere in balìa degli eventi e di essere sovrastati da circostanze avverse. La nostra umanità sta anche lì, nella capacità di avvicinarci al dolore, con un occhio alla persona amata e l’altro rivolto ai rimedi e alle difese che ci aiutano a ostacolare la sventura. Il coraggio permette di avvicinarci anche a chi soffre, ad infondere speranza. All’inizio pensavo che un’eccessiva vicinanza alla sofferenza fosse una conseguenza della debolezza psicofisica in cui ci veniamo a trovare quando siamo colpiti da un forte dolore, ma dimenticavo che avvicinarsi alla sofferenza può significare esattamente l’opposto: avere sviluppato una forza di reazione per difendere la vita e la sua qualità. Credo che il tuo atteggiamento sia dunque stato profondamente maturo e saggio almeno per due ragioni: 1. Conoscere è un modo per misurarsi con il male e per contrastarlo; 2. Conoscere è un modo per stare vicini e per amare. Solo chi conosce il male che lo affligge è in grado di affrontarlo in modo razionale e di frenarlo; e solo chi conosce bene una nuova condizione della vita può comprendere meglio la persona ammalata. Interessarsi al problema è segno di amore, perché nell’attenzione si dimostra un grande attaccamento alla persona amata perché, invece di fuggire il problema, ci si unisce per combattere il male.
Questa tua azione, dunque, è estremamente coraggiosa. Il filosofo italiano Salvatore Natoli mi ha ricordato una cosa molto bella: che il coraggio è una sofferenza che si coniuga con una forza e che spesso amore e dolore oscillano uno nell’altro. Così scrive: “Il coraggio somiglia alla malattia d'amore, come follia dolce e dolorosa: ad ogni modo, è una sofferenza che si coniuga con la forza.”[…] “molte volte amore e dolore trapassano l'uno nell'altro: in fondo, si regge nel dolore perché c'è profondo amore, e si soffre nell'amore perché si è esposti alla perdita e così al dolore”. E qual è la virtù che si sviluppa nel dolore? Natoli scrive che: “la virtù consiste nel commisurarsi alla necessità e nel tenervi testa.”[…] “Tener testa alla necessità non sarà coraggioso, ma col coraggio ha almeno un tratto in comune: il non cedere alla paura. Per questa ragione reggere nel dolore ed essere coraggiosi sono comportamenti contrassegnati da una forte analogia. Quest'analogia meglio si specifica se si pensa che per reggere nel dolore bisogna guadagnare una consuetudine positiva con esso e perciò stesso una medietà ed un abito. Tener testa al dolore è virtù, poiché saper soffrire equivale alla medietà tra disperazione e illusione. Né perire con il proprio male, né rimuoverlo fino al punto da lasciarsi ingannare: nell'un caso e nell'altro si ha a che fare con un perdersi, poiché si abdica alla propria identità. Né cedere, né sublimarsi, ma aderire alle esigenze del presente, cercando le vie utili per svincolarsi dalla necessità.” (L’esperienza del dolore, Feltrinelli 2002). La conoscenza permette dunque di avvicinarsi al dolore e di reggerlo. Per vincere il dolore bisogna però aver guadagnato una “consuetudine positiva con esso”, una prossimità: per questo conoscenza e amore sono gli strumenti adeguati per non cedere e per vivere pienamente. Aristotele diceva che il coraggio è la via giusta tra i due estremi: la temerarietà e la viltà. “chi fugge e teme ogni cosa e nulla affronta diviene timido, chi invece non teme proprio nulla, ma va contro ogni cosa diviene temerario”. Il temerario è l’incosciente, il dissennato, colui che mette a rischio inutilmente la propria vita; il vile è colui che rinuncia e, pauroso di tutto, è codardo e debole. Ma l’eccesso e il difetto rovinano le persone, la virtù invece è il giusto rapporto che si instaura con gli eventi: coraggio, forza d’animo e risolutezza sono strumenti indispensabili per affrontare i problemi. Infatti, scrive Aristotele: “abituandoci a disprezzare i pericoli e ad affrontarli, diventiamo coraggiosi, e soprattutto quando siamo divenuti tali siamo in grado di sopportare i pericoli.”
Il tuo coraggio consiste nel voler affrontare il problema, consapevole che è rischioso addentrarsi nei meandri della sofferenza e della malattia. Ma l’abitudine ad affrontare i problemi rende coraggiosi e in grado di sopportare i pericoli. Sopportare, resistere alla paura, sostenere il peso della difficoltà, non concedere alla sofferenza di lacerare la nostra energia. La persona impulsiva non è coraggiosa e neppure è coraggioso chi fugge. Coraggioso è chi ha la forza di affrontare la vita, perché, come dice il filosofo: “l’ardire è proprio di chi ha speranza” (Etica nicomachea, Laterza 2005).
Un caro saluto,
Alberto

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