lunedì 29 marzo 2010

I ricordi: fili invisibili che legano passato e presente


Alcune volte, quando tutto sembra andar male nella vita, le persone dovrebbero cercare di superare i propri problemi e buttarsi a capofitto in attività che danno risultati positivi, ma non sempre accade...
Tre anni fa ho litigato con un gruppo di amiche che pensavo mi avrebbero accompagnato per tutto il resto della mia vita. Erano come sorelle per me. Ma il tempo passa, le persone crescono, ed io, da parte mia, ho cercato di dimenticare, andando avanti con altre amicizie; ma dimenticare non è per niente facile. Ieri sera ho ritrovato delle vecchie foto di queste amiche, le lacrime sono uscite incondizionatamente e le emozioni hanno preso il sopravvento sulla razionalità che mi diceva che ormai era passato.
Ora... come fare a dominare certe emozioni che sfuggono alla ragione? Come fare a passare oltre a sentimenti così forti anche dopo molti anni di distanza? Perché il dolore del passato ci tormenta anche spesso e ben volentieri nel presente? C'è una soluzione alla paura di dimenticare? al dolore del ricordare?
Diletta


Cara Diletta,
L’austriaco-americano Erich R. Kandel ha preso il premio Nobel 2000 per la Medicina e le neuroscienze per i suoi studi sulla memoria e sull’apprendimento. Grazie a lui, oggi, sappiamo che i meccanismi della memoria sono legati a complessi sistemi di regolazione dell’attività cellulare, prevalentemente basati sulla fosforilazione delle proteine.
Nel cervello umano ci sono miliardi di cellule nervose che sono collegate tra loro grazie a una complessa rete di processi. Il messaggio viene inviato da una cellula nervosa all’altra grazie a trasmettitori chimici e la "comunicazione" avviene in specifici punti di contatto chiamati sinapsi. Eric Kandel ha puntato le sue ricerche pionieristiche sulla trasmissione sinaptica lenta, che è un tipo particolare di trasmissione di segnali tra le cellule nervose, dando la possibilità di mettere a punto nuovi farmaci. Ma soprattutto, le sue ricerche sulla plasticità sinaptica hanno individuato i meccanismi cellulari, molecolari e genetici della memoria.
I neuroni, in certe situazioni, possono mutare le sinapsi : questo dimostra la loro plasticità.
Quando apprendiamo e memorizziamo un comportamento, un evento, un testo, ne imprimiamo le tracce in una zona specifica del nostro cervello. La tesi di Kandel è stata che la memoria sia il risultato di micro-modificazioni fisiche delle sinapsi. La difficoltà della ricerca era quella di percepire tali cambiamenti infinitesimali tra i miliardi di sinapsi che compongono il cervello umano.
Da qui la sua intuizione di studiare l’Aplysia californica, la lumaca marina dell’isola di Catalina.
I neuroni dell’Aplysia sono simili ai nostri e i segnali elettrici che i suoi neuroni si inviano tra loro, assolutamente identici a quelli dell’uomo. Anche se il gasteropodo in questione ha un sistema nervoso composto di soli ventimila neuroni, contro gli 11-100 miliardi del cervello umano. Grazie ai suoi esperimenti con l’Aplysia, ha capito che un semplice riflesso di retrazione del suo organo respiratorio (branchia e sifone) può venire modificato in due modi: per abitudine o sensibilizzazione. Inoltre ha provato che questi riflessi comportamentali alla stimolazione sono provocati dalla plasticità della sinapsi: dunque, che la memoria nasce nella sinapsi.
Oggi, abbiamo la consapevolezza che all’interno del neurone sensoriale si attiva un gene, detto CREB, il quale determina la sintesi di proteine che modifica in modo più o meno persistente la sinapsi generando le due possibili forme della memoria: una transitoria a breve termine, ed una duratura o a lungo termine. Ciò ha confermato la sua teoria che la memoria avesse una spiegazione organica.
Eric kandel afferma che la memoria è fondamentale nei processi mentali e nell’approccio psicoanalitico, perché noi siamo chi siamo soprattutto grazie a quello che ricordiamo della nostra vita.
Neanche la persona più algida e imperturbabile ne è immune. Sogni e ricordi sono l’unico laccio tenace che ci tiene stretti al futuro e al passato: i mattoni portanti della nostra vita. Cosa sarebbe l’esistenza senza l’eccitante propulsione del sogno e del desiderio e senza l’educativo bagaglio della memoria? Il mosaico di noi stessi si è autocostruito con le preziose tessere dei ricordi che disegnano il DNA del nostro vissuto, del nostro carattere, del nostro comportamento. L’io-uomo è quello che ha imparato ad essere con l’apprendimento, con l’interesse, con lo stimolo che la "memoria" ha metabolizzato in una personalità unica e distinta da tutte le altre. Un profumo, un sapore, una musica, una voce, possono riaccendere istantaneamente il bambino che siamo stati, l’adolescente, l’adulto, nella sequenza filmica del nostro passato. Possono tuffarci nelle pieghe stratificate dei ricordi con sensazioni analoghe, senza soluzione di continuità, azzerando il tempo. Lo stesso stimolo scatena il riflesso condizionato della stessa emozione, confermando la nostra identità innata e quella costruita. Questa è la memoria. La memoria sensoriale. La memoria che rievoca e rinsalda. La memoria che fa di noi quello che siamo.
Ma la memoria, oltre che emotiva, è anche funzionale. Si distingue così una memoria associata all’apprendimento e alla rievocazione di informazioni (memoria dichiarativa) da una memoria di azioni (memoria procedurale) che consiste nel saper fare una determinata cosa per averla già fatta altre volte. Dal punto di vista scientifico, le classificazioni più accreditate concordano nel suddividere la memoria in: sensoriale, cioè il processo percettivo in cui le informazioni provenienti dagli organi di senso vengono riconosciute; a breve termine, che trattiene un numero limitato di informazioni per un breve periodo di tempo (pochi secondi) e comporta l’ attivazione elettrica di alcuni neuroni , senza modificazioni durature; a lungo termine, grazie alla quale le informazioni vengono trattenute per un periodo di tempo più lungo. Poi, parte delle informazioni si perde, parte si conferma e diviene memoria permanente. Segue così una fase di consolidamento con la quale l’informazione memorizzata diventa resistente all’oblio e all’interferenza con altre informazioni. La memoria a lungo termine implica la creazione di nuove connessioni tra i neuroni del cervello, grazie all’attivazione della produzione di Rna e specifiche proteine. Esiste poi la cosiddetta - memoria emotiva -, identificabile con l’inconscio, in cui restano incise le esperienze "preferite" dalla nostra mente che ha una capacità selettiva in grado di evitare il peso di informazioni inutili. La memoria del linguaggio, grazie alla quale ricordiamo vocaboli e regole grammaticali che permettono di esprimerci correttamente e di comunicare. E ancora, la memoria dell’ambiente e della società: il lavoro, la famiglia, i rapporti con gli altri. La memoria, pur essendo un processo dinamico, può identificarsi come una sorta di archivio dove i ricordi vengono in qualche modo messi in ordine e classificati. La "chiave" con cui l’informazione viene collocata sarà anche quella che permetterà di accedere all’archivio al momento del recupero dell’informazione.
Joseph LeDoux, a capo di un gruppo di ricercatori del Centro per le Scienze Neurologiche di New York ha recentemente messo a punto un farmaco capace di eliminare in modo selettivo alcuni ricordi dalla memoria dei ratti, lasciando integri gli altri; ovvero sono riusciti a intervenire sul meccanismo che, regolando il trasferimento dei ricordi dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine, dà vita ai ricordi permanenti. Questo processo, noto come riconsolidamento, può essere alterato o interrotto con opportuni farmaci, evitando in modo selettivo la formazione di alcuni specifici ricordi, senza modificare gli altri. I ricercatori hanno indotto alcuni ratti ad avere paura di due differenti suoni facendoglieli sentire mentre veniva loro inflitta una scarica elettrica. Hanno poi somministrato a metà degli animali l’U0126, un composto chimico noto per provocare amnesie, mentre facevano sentire ai topolini di nuovo i suoni, nel tentativo di far riaffiorare il ricordo spiacevole. Il giorno dopo, sono stati fatti ascoltare gli stessi rumori ai topolini, ma quelli trattati con l’U0126 sembravano non avere più “memoria” di quella paura, mentre gli altri associavano il rumore allo sgradevole ricordo della scossa elettrica. Secondo i ricercatori, il timore del suono (e quindi dell’esperienza negativa) non si è consolidato nella memoria permanente dei ratti “curati” con l’U0126.
Secondo LeDoux in questo processo gioca un ruolo fondamentale l’amigdala: è una zona del cervello in cui, durante la formazione di un ricordo spiacevole, si può notare un consistente incremento delle comunicazioni tra i neuroni. Nei ratti trattati con il farmaco il numero di queste connessioni neuronali era molto ridotto: questo indica una vera e propria cancellazione della memoria dolorosa.
La ricerca del team americano non è comunque la prima nel suo genere: già nel 2004 un gruppo di scienziati di Cambridge aveva ipotizzato di poter alterare il processo di riconsolidamento dei ricordi per intervenire alla radice su problemi come le dipendenze da droga e alcol, le fobie ricorrenti e le sindromi da stress. Secondo i ricercatori britannici la memoria subisce un riconsolidamento ogni volta che vengono fatte affiorare i ricordi, come in un file che viene aperto e poi salvato. Grazie a opportuni farmaci dovrebbe essere possibile interrompere questo processo, impedendo il “salvataggio del file” e cancellando così il ricordo spiacevole.
È evidente come questo tipo di ricerca apra il dibattito su numerosi problemi etici: se la parte più psicologica dell’essere umano è anche il frutto delle esperienze, la cancellazione selettiva dei ricordi spiacevoli non rischia forse di trasformarci in automi sorridenti, incapaci di apprendere dagli avvenimenti negativi e quindi di migliorare? Quanto potrebbe sopravvivere l’uomo senza la difesa offerta dalle paure? Contro questo tipo di studi si è apertamente schierato anche il Comitato di Bioetica della Casa Bianca, secondo il quale modificare il contenuto della nostra memoria equivale a modificare la nostra personalità.
I fautori del “lifting” chimico, capaci di farci vivere, almeno in teoria, più felici e meno stressati sono comunque numerosi. Roger Pitman, psichiatra di Harvard, sostiene che la cancellazione della memoria sia addirittura doverosa in tutti quei casi come gli attentati terroristici, gli stupri e gli incidenti, che rischiano di condizionare per tutta la vita l’emotività e la serenità di chi li subisce.

Un caro saluto,
Alessandra

Cara Diletta,
Mi sembra che le espressioni che hai individuato, “paura di dimenticare” e “dolore di ricordare”, esprimano efficacemente il rapporto ambivalente che ogni persona instaura con la propria memoria, con il proprio passato e con i ricordi. Mi vengono in mente due personaggi che incarnano singolarmente questi due elementi. In un bel libro di Elie Wiesel (1928) - lo scrittore rumeno sopravvissuto all’Olocausto -, dal titolo l’Oblio [1989, Garzanti 2007] sono presenti due persone che hanno un diverso rapporto con il passato. Malkiel ha “paura di dimenticare”, mentre la signora Elena Calinescu soffre invece il “dolore del ricordo”. Malkiel la cerca perché ha bisogno di informazioni su suo padre e teme di perdere la memoria del passato; la signora Calinescu - da giovane costretta a sposare un ragazzo che diventerà poi un ufficiale delle SS., spietato con gli ebrei e violento e crudele anche con lei –, cerca invece di dimenticare il marito, proprio per liberarsi dal “dolore del ricordo”.
Quando Malkiel le chiede di ricordare, ad esempio, il giorno della liberazione, la donna risponde: “"Ho dimenticato tante cose, tante cose," dice la vecchia. Tira una sedia verso di sé per accomodarvisi. Da quel momento, Malkiel la vedrà soltanto di profilo. "Tante cose," ripete lei con tono stanco. «Meno male che ho potuto dimenticarle. Dio, nella Sua bontà, mi ha aiutato a cancellarle dalla mia memoria. Lei è ancora giovane, signore. Non può capire le virtù dell'oblio. Come si può resistere se ci si ricorda di tutto?" . Spesso maltrattata, soffre perché accanto al marito sente “la presenza delle sue vittime”, ed è un grado di udire “i loro gemiti." Così questa donna sostiene che, quando i ricordi sono troppo dolorosi, anche l’oblio diventa una virtù. Dimenticare vuol dire liberarsi dall’ossessione e dall’angoscia, allontanare travagli, drammi troppo intensi, che travolgono e schiacciano. Malkiel invece è ossessionato dal passato e sente forte il dovere di ricordare, spinto, come dici tu, dalla “paura di dimenticare”. Scrive l’autore: “Malkiel le trattiene la mano tra le proprie: "Spero che non me ne voglia troppo, signora Calinescu. Grazie a lei, sono venuto a sapere qualcosa di utile e forse di essenziale: anche l'oblio fa parte del mistero. Lei ha bisogno di dimenticare, e la capisco; io, invece, devo combattere l'oblio, cerchi anche lei di capirmi."
Il verbo ricordare deriva dal latino (recordare) e contiene la particella “cor”, ossia cuore. Per gli antichi infatti ricordare significava letteralmente “reimmettere nel cuore”, perché il cuore era considerato la sede della memoria. Ecco allora il “dolore del ricordo”: perché quando si reimmettono nel cuore eventi dolorosi come la perdita di affetti importanti, si diventa consapevoli che persone significative e momenti belli non ci sono più. Reimmettere nel cuore il dolore della lacerazione di una relazione di amicizia o di amore genera dispiacere anche a distanza di tempo; la sventura della perdita di un amico o di un familiare rinnova la sofferenza. “Perché il dolore del passato ci tormenta anche spesso e ben volentieri nel presente?” Credo perché noi siamo costituiti dalle relazioni. Relazioni interpersonali che danno significato alle nostre giornate: occhi, sguardi, parole. Ogni legame è importante perché ci permette di vivere, di conoscere, di esprimere la personalità. Per questo quando viene meno un legame significativo proviamo una sofferenza immensa, perché viene meno una parte di noi. Credo che il passato, fondamentalmente, non sia mai del tutto “passato”. Ognuno di noi è costituito infatti da legami: ci rispecchiamo negli altri, instauriamo relazioni, la nostra interiorità è coinvolta in una dialettica inesauribile con le persone; anzi, possiamo anche dire che la nostra soggettività è possibile grazie all’intersoggettività. Non possiamo eliminare l’intersoggettività perché rappresenta la condizione stessa perché ognuno di noi diventi ciò che è, tra identificazione col prossimo e distanza dal prossimo. Coloro che hanno permesso la costituzione del nostro essere, continuano a vivere dentro di noi, magari in modo impalpabile, inavvertibile. Ma continuano ad essere presenti, parte della nostra vita. A distanza di tempo, come è capitato a te, si prova ancora dolore. Credo almeno per tre motivi: perché il ricordo di eventi positivi scomparsi fa nascere in noi la nostalgia di momenti belli (la nostalgia è infatti il dolore per il ricordo); perché temiamo che la pena che si rinnova possa sovvertire un equilibrio psicologico faticosamente conquistato; infine, perché il fallimento di una relazione fa diminuire la fiducia di essere degni dell’amicizia e dell’affetto degli altri. Immaginando quello che abbiamo perso e fantasticando su come poteva essere la nostra vita, sappiamo che una possibilità (la relazione con le vecchie amiche) percorribile nella tela articolata delle relazioni si è interrotta. L’interruzione segna la fine di uno scenario, di un’apertura verso il futuro. Siamo consapevoli che dobbiamo ricreare relazioni, inventare nuove corrispondenze, perché sappiamo che, nonostante la fragilità dei legami, la bellezza di una vita piena è data dalle relazioni,. Dobbiamo però avere fiducia che nuovi rapporti sono possibili e che siamo in grado di crearli. Inoltre, credo che quello che non si riesce a dimenticare debba essere interpretato. È vero, vorremmo ricordare solo le cose belle per stare bene, ma a tradimento, involontariamente, affiorano in noi anche episodi spiacevoli, dolorosi: frasi sgradevoli, scene amare e penose che fanno affiorare l’angoscia. Non possiamo cambiare il passato, ma possiamo circoscrivere gli effetti dolorosi su di noi, considerando tali eventi sotto una nuova luce. In fondo noi non facciamo altro che descriverci e ridescriverci continuamente. Quando un evento ci turba profondamente, ne parliamo o lo ridescriviamo spesso anche a noi stessi. La scienza ci ricorda che la nostra coscienza si sviluppa nella successione dei momenti storici e che anche le emozioni vanno incontro ad un processo di cambiamento. La ridescrizione di certi momenti implica una nuova comprensione dei fatti, getta una nuova luce sul contesto e ci permette di considerare un evento da prospettive diverse. Descrivere e ridescrivere sono operazioni che ci consentono di guardare alla nostra vita in modo meno negativo, senza essere giudici troppo severi. Poiché i pensieri influenzano le emozioni, una nuova valutazione degli eventi dolorosi riduce lo stordimento delle emozioni negative. Un ottimo antidoto alla sofferenza provocata dalla considerazione del passato consiste nell’attribuire significato al presente. Dare senso al presente e a ciò che si fa procura gioia. Ricordo che uno psichiatra diceva che nella dimensione della gioia si dimentica il futuro ma anche il passato: i fantasmi del passato e le aspettative del futuro, perché l’istante del presente riesce ad occupare ogni dimensione. Nietzsche stesso scriveva: “Chi non sa mettersi a sedere sulla soglia dell'attimo dimenticando tutte le cose passate, chi non è capace di star ritto su un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cosa sia la felicità, e ancor peggio, non farà mai alcunché che renda felici gli altri”.
Un caro saluto,
Alberto

domenica 21 marzo 2010

La solitudine



I primi pensieri che ci vengono in mente associati alla solitudine sono pensieri negativi, di tristezza, di malinconia. Secondo me la solitudine è sempre dentro di noi, noi ci sentiamo sempre soli, a volte di più altre di meno, e non riusciamo mai ed eliminarla del tutto. Perché? Anche quando siamo accerchiati da persone che ci vogliono bene ci sentiamo soli e sentiamo ancora la mancanza di qualcosa. Ci sentiamo soli dopo la perdita di un caro, la rottura di un'amicizia, di un amore, quando non troviamo più vicino a noi l'affetto di una persona che prima ci era vicina e ci donava il suo aiuto quando ne avevamo più bisogno. A volte però siamo proprio noi che cerchiamo la solitudine, lo stare da soli, quando abbiamo il desiderio di riflettere, di pensare a noi stessi, ai nostri comportamenti e ci facciamo delle domande su ciò che ci sta accadendo nella vita; quando siamo soli riusciamo a pensare senza essere condizionati dai pensieri di altri. Perché vediamo la solitudine come cosa negativa ma la cerchiamo? A volte da soli si sta meglio, riusciamo ad essere felici, a trovare ciò di cui abbiamo veramente bisogno. Altre volte però sentiamo il bisogno di avere qualcuno a fianco, qualcuno che sappia ascoltare i nostri pensieri, che ci capisca. Il nostro essere quindi vuole rimanere da solo, ma sente il bisogno degli altri; cerchiamo la solitudine, ma poi non la vogliamo. Perché?
Elena


Cara Elena,
Avevo concluso il mio POST sul MALE e sul BENE (vedi: http://apiuvoci2.blogspot.com/2010/01/il-bene-e-il-male-rev-1.html), con la sintesi di un LIBRO “Solitudine. L'essere umano e il bisogno dell'altro” di Cacioppo John T., Patrick William:

“Essere soli è diverso dallo stare da soli o dal sentirsi soli. Il dolore cronico della solitudine è una ferita lacerante che può alterare il nostro equilibrio fisiologico. È un giogo che trasforma il bisogno insoddisfatto dell'altro in sensazioni, pensieri e comportamenti ostili. La solitudine non è una sensazione ineffabile, è qualcosa di ben radicato nella nostra biologia, che coinvolge il corpo in maniera totale, dalla circolazione del sangue alla trasmissione degli impulsi nervosi. Le immagini del cervello ottenute con le nuove tecniche di neurovisualizzazione mostrano che le sensazioni di emarginazione sociale e il dolore fisico condividono lo stesso meccanismo fisiologico. Ma per comprendere perché la solitudine ci fa soffrire bisogna scoprire il passaggio evolutivo dal gene egoista all'essere sociale. Perché Homo sapiens si è evoluto come specie superiore? John T. Cacioppo trova la soluzione nel "terzo adattamento": i fattori decisivi del successo riproduttivo dell'uomo si fondano sull'empatia, sulla cooperazione e sui legami sociali. Privarsi dello scambio con gli altri provoca uno strappo nel tessuto genetico che si espande nel nostro essere fino a pervadere le emozioni. In Solitudine, neuroscienze, genetica e psicologia evoluzionistica convergono, proponendo al lettore le acquisizioni più avanzate della ricerca per la diagnosi e la cura di una delle più diffuse malattie del nostro tempo. Dopo aver letto questo libro nessuno vorrà essere solo. E non lo sarà.”

In questo POST, aggiungo un articolo MOLTO ESPLICATIVO DEL PROBLEMA DELLA SOLITUDINE de “Il Sole-24 Ore” dedicato allo stesso libro:

Un'affollata solitudine.

“Se il direttore di uno zoo dovesse realizzare un recinto appropriato per la specie Homo sapiens , al primo posto nell'elenco dei punti importanti metterebbe «Animale necessariamente gregario», nel senso che non si può far vivere un membro della famiglia umana in isolamento, non più di quanto si possa far vivere un membro di Aptenodytes forsteri , il pinguino imperatore, in un deserto di sabbia. Sarebbe privo di senso inserire una creatura in un ambiente che forza fino a quel punto il suo guinzaglio genetico. Ciò malgrado,per circa cinque secoli –e a un ritmo molto più sostenuto negli ultimi cinquant'anni – le società occidentali hanno fatto retrocedere il gregarismo umano da una necessità a un fattore accessorio. Di fatto, i dati più recenti indicano che il numero delle persone che accettano una vita in cui sono fisicamente, e forse emotivamente, isolate
dagli altri è in crescita. Consideriamo i seguenti dati:
a) in uno studio delle scienze sociali del 2004, la percentuale dei soggetti che dichiaravano di non avere nessuno con cui discutere questioni importanti era triplicata rispetto a quella rilevata in uno studio del 1985;
b) nell'ultima ventina d'anni, negli Stati Uniti la dimensione media delle famiglie è diminuita all'incirca del 10%, raggiungendo il valore di 2,5 persone;
c) nel 1990, tra le famiglie con figli minorenni più di una su cinque comprendeva un sologenitore. Attualmente, le famiglie con un solo genitore sono quasi una su tre;
d) nel 2000 negli Stati Uniti le persone che vivevano completamente da sole, per il 36% ultrasessantacinquenni, erano più di 27 milioni. Secondo le proiezioni dell'U.S. Census Bureau, nel 2010 saranno 29 milioni –con un aumento di più del 30%dal 1980 –e in una percentuale enorme saranno ultrasessantacinquenni.
Poiché la struttura delle carriere, delle abitazioni e della mortalità e le olitiche sociali sono guidate dal capitalismo globale, gran parte del mondo sembra determinata ad adottare uno stile di vita che aggraverà e rafforzerà la sensazione cronica di isolamento che milioni di persone provano già, anche quando sono circondate da familiari e amici ben intenzionati. La contraddizione è che abbiamo modificato radicalmente l'ambiente, ma la nostra fisiologia è rimasta invariata. Per quanto ricche e tecnologicamente avanzate siano diventate le nostre società, sotto sotto siamo le stesse creature vulnerabili che si stringevano le une alle altre terrorizzate dai temporali 60mila anni or sono.

***
Come ogni altra caratteristica, la propensione genetica a desiderare le relazioni sociali e la tendenza a provare dolore sociale in situazioni di isolamento si trasmettono grazie alle informazioni genetiche contenute nelle nostre cellule, codificate come istruzioni per produrre proteine. L'espressione di questi geni dipende dalle circostanze ambientali, tanto quelle reali quanto quelle meramente percepite. Alcune delle proteine assumono la forma di ormoni che trasportano messaggi nel sangue. Questi messaggi servono a integrare diversi sistemi organici e a coordinare le risposte comportamentali.
Uno di questi ormoni è l'epinefrina, che ci può inondare di quell'insieme di sensazioni che chiamiamo eccitazione. Un'altra piccola proteina –l'ormone ossitocina –favorisce l'allattamento, la calma rasserenante e l'intimità stretta. Altre proteine geneticamente orchestrate danno origine a neurotrasmettitori quali la serotonina, che può migliorare il nostro umore oppure gettarci nella disperazione, a seconda della sua concentrazione nel cervello. I geni forniscono le carote e i bastoni chimici che guidano il comportamento, ma dipendono dai sistemi sensoriali per poter interagire realmente con l'ambiente. I segnali che i sensi ricevono dall'ambiente provocano cambiamenti della concentrazione e del flusso di questi ormoni e neurotrasmettitori. Queste sostanze chimiche agiscono come segnali interni per stimolare comportamenti specifici – ed è qui che le istruzioni genetiche alla fine si manifestano come differenze individuali nei livelli di ansia, di giovialità o di sensibilità alle sensazioni di isolamento sociale.
Nel corso della storia, gli individui con tendenze comportamentali meno bene adattate all'ambiente non sono sopravvissuti, oppure sono sopravvissuti solo marginalmente, o non abbastanza a lungo da generare lo stesso numero di figli degli individui con un adattamento migliore.
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Tra gli esseri umani ancestrali, stringere legami con i membri del gruppo più ampio divenne la norma, ma per ragioni diverse a seconda del sesso. I legami offrivano alle femmine dei cacciatori-raccoglitori un vantaggio per la sopravvivenza: il gruppo significava sicurezza, ma anche poter condividere i doveri materni mentre ci si occupava di altre faccende necessarie. Anche tra i babbuini selvatici della savana africana, le differenze individuali nella capacità di formare relazioni intime con altre femmine hanno un effetto significativo sul tasso di sopravvivenza della prole (...). Tra i primi esseri umani di sesso maschi-le, gracili saprofagi armati solo di bastoni appuntiti, stringere legami per formare alleanze divenne la norma innanzitutto per i vantaggi politici che ne derivavano (peraltro il predominio politico offriva migliori opportunità di accoppiamento) e anche perché l'unione fa la forza. Ma il più grande vantaggio della connessione e della coordinazione sociale era forse la possibilità di ottenere grandi quantità di proteine concentrate (...).
Presumendo una variazione normale nel bisogno di relazioni sociali influenzato dai geni, si può immaginare che centomila anni or sono, poniamo, un maschio potesse avere un termostato sociale regolato su un livello tanto basso da potersi accaparrare il cibo senza provare vergogna, senso di colpa o dolore. Poteva andarsene a caccia per tre giorni, trovare il posto in cui giocavano le antilopi e non tornare mai indietro. Poteva ignorare l'assenza della sua famiglia,o l'idea che potessero morire di fame. Assuefatto alla solitudine come segnale di pericolo, cacciando per sfamare solo se stesso, forse si nutriva meglio dei maschi che riportavano cibo all'accampamento e contribuivano al bene di tutti.
Tuttavia, se i suoi figli non sopravvivevano abbastanza a lungo da maturare e riprodursi e nutrire i propri figli, non sopravvivevano nemmeno i suoi geni (anche qualora non fosse sopravvissuta la sua tribù, i suoi figli avrebbero avuto minori probabilità di sopravvivere).
I geni più vecchi e completamente egoisti continuarono a esistere, ma la loro influenza nella popolazione in generale si ridusse per il continuo calo riproduttivo. Il successo individuale ormai era guidato dalla capacità di trascendere l'egoismo e di agire nell'interesse di altri.Il gene egoista aveva dato origine a un cervello sociale e a un diverso tipo di animale sociale.”


Concludo, quindi, nel dire che il SOFFRIRE LA SOLITUDINE e IL CERCARE LA SOLITUDINE, è molto simile al prevalere del BENE e del MALE (ovvero dell'altruismo e dell'egoismo), che in questa fase evolutiva dell'umanità COESISTONO in ogni uomo, anche se in misura diversa, anche in funzione dell'emotività e dei sentimenti che variano nel tempo e nelle varie circostanze.

Un caro saluto,
Alessandra



Cara Elena,
Il filosofo Montaigne nei suoi Saggi racconta di aver conosciuto un decano di Saint-Hilaire di Poitiers ridotto a una grave forma di solitudine causata dai tormenti di una malattia che un tempo veniva chiamata “malinconia” e che oggi sarebbe probabilmente etichettata con il termine “depressione”. Racconta che quando entrò nella sua camera scoprì che: “erano ventidue anni che non aveva fatto un passo fuori”; […] “Appena una volta alla settimana permetteva che qualcuno entrasse a fargli visita; si teneva sempre chiuso in camera sua, solo, a parte un servo che gli portava da mangiare una volta al giorno, e non faceva che entrare e uscire. La sua occupazione era passeggiare e leggere qualche libro (poiché aveva qualche cognizione di lettere), ostinato quanto al resto a morire in tale condizione, come fece poco dopo” (Saggi, vol. I). Una solitudine estrema, probabilmente molto sofferta e che conduce anche alla morte: quella relazionale, prima; e quella fisica, dopo, come conseguenza. Ricordo che qualche tempo fa mi ha colpito un libro di Elie Wiesel dal titolo La danza della memoria [2008], in cui l’autore mette in relazione la solitudine con la follia. Ad un certo punto infatti parla di un uomo di nome Beinish che ha deciso di vivere da solo, forse in completa solitudine. Il protagonista del libro desidera incontrarlo e si interroga su tale opportunità. Si chiede che cosa avrebbe potuto offrirgli in un eventuale incontro quel personaggio così particolare, e pensa anche solo alla possibilità di ottenere la chiave interpretativa per comprendere quella solitudine. Poi riporta questa bella riflessione che mette in relazione solitudine, paura e follia. Scrive Wiesel: “La solitudine è una donna percossa che non ha più né la forza né la voglia di amare. La solitudine è un bambino affamato che sogna un pezzetto di pane ammuffito. La solitudine è il mendicante che non chiude occhio da giorni e notti, forse da quando è stato strappato al ventre di sua madre. Come la follia, la solitudine è la paura. Un uomo solo è un uomo che ha paura. Un uomo che vive nella paura è un uomo solo. Quando la solitudine entra in me, diventa me. La solitudine sorge all'improvviso quando solo il corpo mi appartiene, ma anche quando solo io appartengo al corpo. La solitudine trasforma la coscienza in prigione, una prigione dalla quale ho paura di uscire. Paura di non capire nulla, paura di capire tutto. Paura di amare e di non amare più. Paura di dimenticare tutto e paura di non dimenticare niente: i corpi dilaniati che si trascinano sui campi di battaglia, l'agonia lenta e implacabile dei superstiti. Paura di conoscere la fame, paura di non avere più sete di niente. Paura di morire e di vivere. Paura di avere paura. Paura di essere solo quando non c'è più nessuno. Paura di essere solo con la persona amata. C'è una paura che non è ancora morte, ma che non è più vita”.
Quando penso ad un filosofo che è vissuto solo e che ha fatto della solitudine la propria forza per esplorare l’interiorità dell’uomo, penso a Kierkegaard. Il filosofo danese ha fatto della solitudine un momento fondamentale per la scoperta dell’uomo come “singolo”, perché ha esplorato la persona nella sua unicità e irripetibilità. Kierkegaard racconta che cercava spesso la solitudine dei boschi in una grande foresta a nord-ovest di Copenaghen: “Nel Bosco di Grib c'è un posto che si chiama ‘Angolo degli Otto Sentieri’; lo trova solo chi lo cerca attentamente, poiché nessuna carta lo riporta”. […]“È come se il mondo si fosse estinto e l'unico sopravvissuto si trovasse nell'imbarazzo di non avere nessuno che possa dargli sepoltura; ovvero come se l'umanità intera avesse trasmigrato per quegli otto sentieri dimenticando uno dei suoi membri!”. Dice: “qui il silenzio e la bellezza regnano sempre” (Stadi sul cammino della vita, [1845] 2006). In questo bosco egli riusciva a trovare quel silenzio che sovente gli uomini cercano di notte. Un silenzio possibile dunque anche di giorno, nelle ore di luce e all’aperto. Il nome Otto Sentieri, però, è contraddittorio perché da quei luoghi non passava mai nessuno e dunque quei sentieri non erano altro che una “possibilità per il pensiero”. Scrive Kierkegaard: “Voi, Otto Sentieri, avete allontanato da me tutti gli uomini e non mi avete riportato che i miei pensieri”. Nella solitudine Kierkegaard indagava l’uomo e il suo rapporto con il divino: indagava le possibilità della fede e la relazione autentica con Dio. Kierkegaard dunque sfruttava la solitudine, nonostante la sofferenza che questa procura, per ascoltare la propria voce interiore e ottenere il massimo rendimento nell’elaborazione dei propri pensieri e nella stesura delle proprie opere.
Pascal era convinto che gli uomini avessero timore della solitudine e che cercassero ogni forma di svago per non sentire la condizione della propria esistenza. Scrive Pascal nei Pensieri (1669-1670): “Il re è circondato da persone che non pensano che a divertire il re, e a impedirgli di pensare a se stesso. Infatti diventa infelice, per quanto sia re, se vi pensa”. Gli uomini dunque si gettano nel fracasso, nel trambusto, tanto che, dice il filosofo, per molti uomini il piacere della solitudine è “un piacere incomprensibile”. Gli uomini infatti preferiscono essere occupati e amano meno riflettere sulla propria condizione; infatti cercano qualcosa “che li distragga dal pensare a se stessi”. La solitudine invece non deve essere fuggita, ma deve essere accolta come un momento importante per la maturità dell’individuo, come un’occasione per guardare in faccia la condizione umana. Scrive Pascal: “Noi siamo ridicoli a cercare riposo nella società dei nostri simili: miserabili come noi, impotenti come noi, non ci aiuteranno; si morirà soli”. Si nasce soli e si muore soli, nessuno si può sostituire a noi e per quanto abbiamo riflettuto o per quanti amici e persone care abbiamo attorno a noi ci sono momenti in cui siamo soli a compiere delle scelte.

La solitudine se non è scelta è una pena e procura sofferenze. Anche se l’uomo avesse tutta la natura al proprio comando e fosse in grado di ottenere tutto ciò che desidera nella vita, sarebbe sempre infelice se non potesse condividere con altri le proprie gioie. Il filosofo scozzese David Hume spiega efficacemente questa idea. Scrive Hume: “Una solitudine totale è forse il peggior castigo che ci si possa infliggere. Qualsiasi piacere languisce se non è goduto in compagnia, e qualsiasi dolore diventa più crudele e intollerabile. Qualunque sia la passione che ci muove, orgoglio, ambizione, avarizia, brama di sapere, desiderio di vendetta o concupiscenza, di tutte la simpatia è l'anima o il principio animatore; ed essa non avrebbe alcuna forza se facessimo completamente astrazione dai pensieri e dai sentimenti altrui. Se anche tutte le forze e gli elementi della natura pattuissero di servire un solo uomo e di obbedirgli; se anche il sole sorgesse e tramontasse al suo comando; se anche il mare e i fiumi scorressero a suo piacimento, e la terra producesse spontaneamente tutto quanto gli fosse utile o gradito, egli sarebbe pur sempre un infelice finché non gli si desse almeno un'altra persona con cui poter condividere la propria felicità e di cui godere la stima e l'amicizia” (David Hume, Trattato sulla natura umana, II, Sulle passioni, [1739-1740] Laterza 2008).

La solitudine è però l’occasione, come diceva il filosofo e teologo Martin Buber, affinché l’uomo si ponga “il problema dell’uomo”. L’uomo che si perde nella massa cerca di rimuovere l’angoscia, depotenziare la paura della propria condizione esistenziale; cerca infatti di eliminare l’inquietudine, allontanando l’incontro con se stesso che forse lo spaventa. Ma rimuovere la solitudine non è possibile, perché la solitudine è una condizione importante della vita. Se l’uomo allenta il proprio contatto con il mondo, entra in crisi, si mette in discussione, ascolta la propria fragilità e si sente vulnerabile. La solitudine rappresenta anche il momento che rende possibile l’apertura alla trascendenza e alla relazione con Dio. Scrive Martin Buber (1878-1965) nel Principio dialogico e altri saggi ([1984] 1997): “Ma non è un portale anche la solitudine? Non sorge a tratti, nel più silenzioso isolamento, un vedere inaspettato? La frequentazione del proprio io non può misteriosamente trasformarsi in una frequentazione con il mistero?”
La solitudine questa volta è intesa come momento di ricovero, di rifugio essenziale affinché i legami con l’altro (e con l’Assoluto nella riflessione di Buber) non si cristallizzino. Nella solitudine si recupera un senso più autentico anche nelle relazioni tra gli uomini e, forse, come intendeva Buber, la solitudine è un momento dell’alternarsi del rapporto con la vita: “una sistole e una diastole dell’anima”. Allora la solitudine si attraversa e nella solitudine si ritorna, perché la nostra vita, che si rinnova continuamente, è possibile grazie a un’oscillazione costante tra solitudine e vita attiva.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 15 marzo 2010

Il testamento biologico


L'umano ridotto a vegetale.
Non conosciamo la nostra sorte. Un incidente può ridurci allo stato vegetale: non possiamo più parlare, muoverci, ma solo soffrire. Quelli che sono in coma vegetativo soffrono ogni secondo, ogni minuto e nessuno può aiutarli. Tutto questo finirà con la morte. Perché qualcun altro deve decidere al posto nostro? Noi siamo padroni della nostra vita! Tutto quindi si può risolvere e finire con l’eutanasia, la morte. Questa non può essere una nostra volontà? Perché siamo costretti a obbedire (anche in quelle condizioni) ad una “legge” della Chiesa che ci impedisce di interrompere la vita e le sofferenze? Dicono che dopo la morte c’è una vita di felicità, allora perché a queste persone non la si può dare subito?
Martina


Cara Martina,
Innanzi tutto occorre fare chiarezza su cos’è uno stato vegetativo. Si tratta di uno stato clinico conseguente al coma o che, nella fase terminale della vita, lo può precedere.
In sintesi, la definizione internazionalmente accettata dello stato vegetativo indica una condizione clinica in cui il paziente è sveglio (cioè ha gli occhi aperti, mentre nel coma gli occhi sono sempre chiusi), ma non è cosciente (non è consapevole di sé e di sé rispetto all’ambiente: in pratica non comunica e non risponde all’ambiente circostante).
Wikipedia ne dà una definizione sostanzialmente corretta: “[…] un paziente in stato vegetativo ha perso le funzioni neurologiche cognitive e la consapevolezza dell’ambiente intorno a sé, ma mantiene quelle non-cognitive e il ciclo sonno-veglia; può avere movimenti spontanei e apre gli occhi se stimolato, ma non parla e non obbedisce ai comandi. I pazienti in stato vegetativo possono apparire in qualche modo normali: di tanto in tanto possono fare smorfie, ridere o piangere”. Tutto questo senza però valenza emotiva e volitiva. Un semplice e puro automatismo riflesso.
Ricordiamo che, per quanto riguarda la chiesa cattolica, La dottrina, in merito all'eutanasia, è riassunta nell'articolo del Catechismo della Chiesa Cattolica dedicata al quinto comandamento:
2277 Qualunque ne siano i motivi e i mezzi, l'eutanasia diretta consiste nel mettere fine alla vita di persone handicappate, ammalate o prossime alla morte. Essa è moralmente inaccettabile.
Così un'azione oppure un'omissione che, da sé o intenzionalmente, provoca la morte allo scopo di porre fine al dolore, costituisce un'uccisione gravemente contraria alla dignità della persona umana e al rispetto del Dio vivente, suo Creatore. L'errore di giudizio, nel quale si può essere incorsi in buona fede, non muta la natura di quest'atto omicida, sempre da condannare e da escludere.
2278 L'interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all'«accanimento terapeutico». Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente.
2279 Anche se la morte è considerata imminente, le cure che d'ordinario sono dovute ad una persona ammalata non possono essere legittimamente interrotte. L'uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile. Le cure palliative costituiscono una forma privilegiata della carità disinteressata. A questo titolo devono essere incoraggiate.

Invece, a titolo di curiosità, ricordiamo che il Dalai Lama, in visita a Roma e intervistato sul concomitante caso di Eluana Englaro, in stato vegetativo da 17 anni, ha ribadito le sue convinzioni sull'argomento:
L'eutanasia "dovremmo evitarla, ma in casi particolari si potrebbero fare delle eccezioni". Su Eluana: "Se veramente non c'è alcuna possibilità di guarigione, mantenere quello status è molto costoso e le famiglie soffrono, allora si potrebbe agire. In generale se pure una persona non cammina più, ma il suo corpo e il suo cervello sono ancora presenti, allora è meglio tenere una persona in vita, ma si possono fare eccezioni".
Le cure vanno fermate se non vi è "la possibilità di recuperare la coscienza e le funzioni mentali". Nel buddismo, "nei casi di male incurabile c'è una pratica che consente l'abbandono della coscienza dal corpo"; negli altri casi "anche noi parliamo di suicidio".

Riportiamo, anche il parere di Umberto Veronesi (http://www.cdbchieri.it/rassegna_stampa_2009/englaro.htm):
"Il diritto di disporre della propria vita esiste. E´ sancito dall´articolo 13 sulla libertà personale e dall’articolo 32 della Costituzione, secondo il quale nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario e anche dall´articolo 35 del Codice di Deontologia Medica che conferma che non è consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona.". Sappia quindi la gente che c´è un punto fermo : nessuno può violare questo diritto e c´è chi si impegna a farlo rispettare sempre e comunque nella sua sostanza. Eluana oggi non è quella delle foto. E´ una donna di quasi quarant´anni anni, senza sorriso, senza espressione negli occhi, senza vita di relazione, senza coscienza, senza controllo di un corpo, che è ormai un involucro in disfacimento. La sua vita meravigliosa si è spenta per sempre 17 anni fa.
Fatte queste premesse, veniamo al dibattito politico in Italia.
L'argomento, "eticamente sensibile", è oggetto di posizioni differenti fra correnti di pensiero di tipo laico, radicale comprese discussioni di ispirazione cristiana sull'eutanasia e di forte difesa della vita.
Per quanto riguarda l'eutanasia il Comitato Nazionale di Bioetica si è espresso nel dicembre 2003 con un documento, di 19 pagine, contenente un'analisi delle problematiche connesse e terminante con una serie di raccomandazioni, il cui rispetto garantisce la legittimità delle dichiarazioni anticipate. Nel documento si afferma che le dichiarazioni anticipate non possono contenere indicazioni «in contraddizione col diritto positivo, le regole di pratica medica, la deontologia (...) il medico non può essere costretto a fare nulla che vada contro la sua scienza e la sua coscienza» e che «il diritto che si vuol riconoscere al paziente di orientare i trattamenti a cui potrebbe essere sottoposto, ove divenuto incapace di intendere e di volere, non è un diritto all’eutanasia, né un diritto soggettivo a morire che il paziente possa far valere nel rapporto col medico (...) ma esclusivamente il diritto di richiedere ai medici la sospensione o la non attivazione di pratiche terapeutiche anche nei casi più estremi e tragici di sostegno vitale, pratiche che il paziente avrebbe il pieno diritto morale e giuridico di rifiutare, ove capace»
Il documento del Comitato Nazionale di Bioetica afferma inoltre che i medici dovranno non solo tenere in considerazione le direttive anticipate scritte su un foglio firmato dall'interessato, ma anche documentare per iscritto nella cartella clinica le sue azioni rispetto alle dichiarazioni anticipate, sia che vengano attuate o disattese.
Di tanto in tanto alcuni casi di morte per termine o rifiuto del trattamento medico (come quelli di Luca Coscioni e Eluana Englaro) pongono all'attenzione della politica e dell'opinione pubblica la necessità di legiferare in maniera chiara sull'argomento
In attesa di una legge che regoli la materia è in atto, in molti comuni italiani, la raccolta della dichiarazione anticipata di trattamento dei cittadini residenti nel territorio interessato. Per i promotori di queste iniziative questi atti non eludono e non anticipano le iniziative legislative, ma sono l'azione necessaria perché, in caso di bisogno, non sia necessario ricostruire, a posteriori, le volontà dell'interessato, come è successo nel caso di Eluana Englaro.

Concludo, facendo riferimento al post del BLOG "VERITA' A CONFRONTO":
http://nuoveteorie.blogspot.com/2009/04/vita-vegetativa-e-vita-umana-quando.html
La vita di una persona umana INIZIA quando, diventato FETO, il suo cervello è in grado di comunicare con altri cervelli umani, anche allo stato inconscio. Già dopo la prima comunicazione, il SUO DNA, INVARIATO DAL CONCEPIMENTO, INIZIA A MODIFICARSI, VISTO CHE SI MODIFICANO LE SINAPSI DEL CERVELLO ED INIZIA A FARE ED IMMAGAZZINARE ESPERIENZE INTERAGENDO ANCHE CON L'AMBIENTE STESSO.
LA VITA ANIMALE (compresa quella di tipo umano) DIFFERISCE DA QUELLA VEGETALE PER L'APPRENDIMENTO IN RELAZIONE ALLE ESPERIENZE (i vegetali non apprendono dalle singole esperienze allo stesso modo degli animali).
LA VITA ANIMALE ED UMANA E' VARIAZIONE INCESSANTE DELLE SINAPSI CEREBRALI E DEL DNA (E NON IMMUTABILITA' DEL DNA CHE RIMANE ANCHE IN UN ORGANO IN ATTESA DI UN TRAPIANTO).
Qui siamo nel campo delle NEUROSCIENZE: Eric Kandel ha preso il NOBEL nel 2000 proprio per aver dimostrato, con studi sulla lumaca di mare Aplysia e sui topi, che ad ogni nuova esperienza o apprendimento fatto da un individuo animale (o umano) con un cervello con neuroni e sinapsi, corrisponde una MODIFICAZIONE DELLA RETE NEURONALE E SINAPTICA (con nuove sinapsi o anche con semplici ispessimento di alcune delle sinapsi esistenti). A queste modificazioni sinaptiche, per le funzioni trascrizionali del DNA, corrisponde anche una variazione del DNA che in gran parte si tramanda anche ai discendenti (vedi: http://www.psicoanalisi.it/psicoanalisi/neuroscienze/articoli/neuro4.htm).
Ovviamente, vi sono settori di variabilità del DNA che interessano le modificazioni della forma e delle funzioni organiche; altre modificazioni, invece, interessano proprio l'aspetto umano (carattere, fobie, intuito, complessi, archetipi, etc.). MODIFICARE INCESSANTEMENTE IL DNA SOTTO QUESTO ASPETTO (diciamo MENTALE) EQUIVALE A FARE ESPERIENZE E VIVERE UNA VITA PARAGONABILE A UNA VITA UMANA SPIRITUALE
Un caro saluto,
Alessandra

Cara Martina,
Una serie di eventi drammatici, ad esempio quelli di Luca Coscioni, Piergiorgio Welby e Eluana Englaro (ma Giorgio Cosmacini – importante storico della medicina - ci aiuta a ricordare anche altri casi: Karen Quinlan, Nancy Cruzan, Terri Schiavo, Mirko Drazen Grmek), hanno creato in tutti noi un forte impatto emotivo e hanno richiamato fortemente l’attenzione su una questione estremamente rilevante: in certe situazioni-limite chi ha il diritto di intervenire, di prendere decisioni, di sentenziare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato fare della vita di ciascuno? (Il filosofo italiano Paolo Flores D'Arcais, direttore della rivista MicroMega, ha intitolato significativamente un libro su questo argomento: “A chi appartiene la tua vita?”, Ponte alle Grazie, 2009). Per questo negli ultimi anni è emersa la questione del “testamento biologico” anche nella formula di “dichiarazione anticipata di trattamento” (questa, tra l’altro, è la definizione impiegata dal Comitato Nazionale di Bioetica). Conosciamo il significato della parola testamento: indica la disposizione dei propri beni per il futuro, ossia indica il desiderio che qualcosa venga attuato. E se questo bene è la vita stessa in certe condizioni tragiche, sventurate e dolorose, allora la questione acquista un valore ancora maggiore.
Perché la “dichiarazione anticipata di trattamento” è diventata importante?
Perché alcune malattie o condizioni particolari del cervello (il coma, il morbo di Alzheimer, gravi forme di demenza) debilitano talmente una persona che si pensa che sia preferibile lasciare alla persona stessa la possibilità di indicare in forma scritta i propri desideri quando si trova, come dici tu, ad es. per uno stato di coma, in condizione di incoscienza o quando è comunque impossibilitata a comunicare in qualche modo la propria volontà a coloro che si stanno prendendo cura di lei. Nel corso del tempo, nelle riflessioni sui diritti della persona sta aumentando la consapevolezza che sia lecito che un uomo in grado di intendere e volere possa far conoscere i propri desideri e le proprie decisioni sulle terapie e sui trattamenti che desidera gli siano (o meno) praticati nel caso in cui la vita non gli consenta più di esprimere con precisione la propria volontà. D’altra parte questo diritto deriva anche dalla Costituzione italiana, che all’art. 32 dice: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
Lo studioso Giorgio Cosmacini, nel libro “Testamento biologico. Idee ed esperienze per una morte giusta” (Il Mulino, 2010, 123 pp.) racconta un curiosa dichiarazione anticipata di testamento risalente al Rinascimento. Si tratta del “testamento del capitano”. Scrive l’autore: “Il 18 ottobre 1528 il marchese di Saluzzo Michel'Antonio Del Vasto, luogotenente del maresciallo francese visconte di Lautrec all'assedio di Napoli, muore per ferite. Il corpo viene rimpatriato dai suo armigeri, diviso in quattro parti, destinate per volere del defunto rispettivamente: alla madre la testa, alle vallate subalpine il tronco, alla promessa sposa il cuore e il resto al Monferrato natio. Durante il rimpatrio, nei bivacchi militareschi nasce una ballata che, ricuperata da Costantino Nigra all'indomani dell'unità d'Italia, entra a far parte del patrimonio culturale del Corpo degli Alpini e viene modernizzata durante la prima guerra mondiale”. Ora, il testamento biologico a cui si fa riferimento non è certo di questa natura, ma è semplicemente il tentativo di evitare che la vita umana in certe condizioni di non ritorno si perda in una zona particolare in cui però leggi e meandri lasciati dalle leggi rendono difficile trovare soluzioni per il paziente, responsabilità per chi si prende cura del corpo e dignità per il soggetto sofferente. Ti riporto una bella riflessione di uno studioso dell’Università di Torino: "Ogni paziente, qualunque sia la sua condizione clinica, conserva la propria dignità anche nel tempo dell’approssimarsi della morte; egli rimane cioè pienamente persona, meritevole dunque di un rispetto incondizionato", scrive Giannino Piana nel libretto Testamento biologico. Nodi critici e prospettive (Cittadella editrice, 2010, 128 pp.) e più avanti aggiunge che: “Il valore della persona trova anche nella scelta della propria morte e proprio riconoscimento della propria dignità”.
Ora soffermiamoci sulla relazione di cura.
Uno dei problemi da affrontare è quello relativo alla sospensione della nutrizione e dell’idratazione.
Cosmacini presenta una efficace sintesi dell’articolazione di tale problema.
1. la nutrizione-idratazione è un trattamento medico-sanitario oppure un sostentamento vitale ordinario (equivalente ad es. a dare da mangiare e da bere a un individuo affamato e assetato)?
2. si può sospendere di nutrire-idratare in base alla volontà del paziente oppure questo non è possibile in assenza di una diretta ed esplicita testimonianza in proposito da parte del paziente?
3. l'interruzione del sostegno vitale assistito deve essere considerato come cessazione di un accanimento terapeutico oppure come una forma di eutanasia?
Su queste tre questioni diciamo che sostanzialmente vertono le riflessioni sull’opportunità e sulla validità del testamento biologico.
1 A Alcuni ritengono che siano equivalenti le seguenti azioni: dar da mangiare e da bere a chi è affamato e assetato e le odierne trasfusioni e fleboclisi che forniscono nutrimento e idratazione del corpo
1 B Altri ritengono che non possiamo equiparare l’imperativo di dar da mangiare e da bere a chi è affamato e assetato alle odierne trasfusioni e fleboclisi perché queste pratiche rientrano in un preciso contesto di terapie mediche (non sono un’indicazione di principio che si rivolge genericamente a tutti); e che in riferimento alla pietas umana, e proprio per il bene altrui, sia talvolta necessario sospendere trattamenti che, prolungando indefinitamente il bios vitale, ledono la dignità della persona umana che viene ridotta a cosa.
2 A Alcuni ritengono che poiché in base alle tecniche attuali non si è definitivamente sicuri che non vi sia un residuo di attività cerebrale che potrebbe dar origine ad una variazione di una valutazione fatta anticipatamente, non sia lecito interrompere le terapie.
2 B altri ritengono che se, in base anche alle neuroimmagini fornite dalle nuove tecniche di studio del cervello (grazie alla fMRI=risonanza magnetica funzionale) non è possibile dimostrare attività cerebrale, allora è lecito fare riferimento alle indicazioni fornite dal paziente precedentemente.
3 A Alcuni ritengono che rinunciare ad un trattamento artificiale di sostegno alla vita sia un atto di pietas umana che rinuncia all’accanimento terapeutico
3 B Altri ritengono che tale rinuncia sia - dice Cosmacini - un “colposo dare la morte a chi ancora vive”.
Personalmente condivido la riflessione del professore emerito di medicina Claudio Rugarli dell’Ospedale San Raffaele di Milano, riportata nel volume citato. Egli distingue tra vita biologica e vita umana e scrive: “La vita umana è certamente impossibile senza vita biologica, ma implica qualcosa di radicalmente superiore, che consiste in quattro qualità: la capacità di inferire aspetti della realtà che vanno al di là delle esperienze percettive e della loro memoria; il linguaggio; l'immaginazione; la capacità di nutrire sentimenti del tutto peculiari, tipici degli esseri umani”. Inoltre ricorda ancora che nonostante tutta la pietas e l’affetto per la persona in queste condizioni, a volte sia proprio l’amore che invita a sospendere ogni forma di accanimento. Scrive Rugarli: “La vita biologica può confliggere con la vita umana, come in presenza di serie malattie che comportano gravi sofferenze o quello stato di cosificazione che è lo stato vegetativo permanente. In queste circostanze l'amore può esprimersi nel desiderio che la vita biologica si separi dalla vita umana.” Prolungare la vita biologica non è equivalente a prolungare la vita umana. … Spero che i riferimenti citati da Alessandra e in questo articolo ti permettano di riflettere su questo delicato problema per comprendere anche le ragioni di coloro che sostengono tesi differenti e che in questo momento senti lontane dalla tua sensibilità.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 8 marzo 2010

L'aborto


Io ti amo, ma non nascerò mai.
“Tu non mi vedi ancora, non sai della mia esistenza, ma io sono qui: sono nel tuo grembo frutto del tuo amore.
Tu non sai che esisto, eppure io ti amo già. Sono piccolo, debole e indifeso, ma spero che tu mi vorrai proteggere, far nascere e far crescere con il tuo amore.
Dal giorno in cui hai scoperto la mia esistenza piangi ogni sera.
Sono triste di essere la causa della tua tristezza.
Forse è meglio se non mi farai nascere…
Una sera sento qualcosa cambiare in te, hai deciso, non nascerò.
Ti rechi in un laboratorio, non è una cosa complicata, basta poco.
Ma io spero ancora: non lasciarmi andare!”
Che diritto ha una donna di negare la vita a un’altra creatura?
Francesca


Cara Francesca,
prendo spunto dalla tua lettera, per fare alcuni POST di BIOETICA, iniziando con quello sull'aborto. Per "par condicio", segnalo una pagina web "contro l'aborto", da cui ho preso le immagini (http://www.sandrodiremigio.com/blog/aborto_embrione_ivg_omicidio.htm), e un articolo del giornale.it (http://www.ilgiornale.it/interni/aborto_difendo_ragioni_cuore/21-02-2010/articolo-id=423763-page=0-comments=1).
e soprattutto un articolo del corriere della sera ON LINE, del 20 Febbraio 2010, di cui riporto dei brani significativi (http://archiviostorico.corriere.it/2010/febbraio/20/duri_anti_aborto_contro_Fisichella_co_8_100220024.shtml):
"CITTÀ DEL VATICANO - Cinque membri (su 158) della pontificia Accademia per la Vita chiedono al Papa la testa del presidente, l' arcivescovo Rino Fisichella, definito «un ecclesiastico che non capisce cosa comporta il rispetto assoluto per le vite umane innocenti». Un attacco dal fronte «pro life» più radicale - diffuso via Internet con un gesto giudicato «grave» e «scorretto» dalla Santa Sede - che risale a una vicenda atroce dell' anno scorso: una bimba brasiliana stuprata dal patrigno rimase incinta di due gemelli; era stata violentata e picchiata più volte, aveva nove anni e pesava trenta chili: per salvarla, i medici la fecero abortire. Fu a quel punto che l'allora arcivescovo José Cardoso Sobrinho pensò di annunciare pubblicamente la «scomunica» contro «tutte le persone coinvolte nell' aborto». L' uscita creò sconcerto, anzitutto fra i cattolici, finché Fisichella, il 15 marzo, pubblicò un articolo («Dalla parte della bambina brasiliana») sull' Osservatore Romano: «L' aborto provocato è sempre stato condannato dalla legge morale», scriveva, ma la bimba «doveva essere in primo luogo difesa, abbracciata, accarezzata con dolcezza per farle sentire che eravamo tutti con lei; tutti, senza distinzione alcuna. Prima di pensare alla scomunica era necessario e urgente salvaguardare la sua vita innocente e riportarla a un livello di umanità di cui noi uomini di Chiesa dovremmo essere esperti annunciatori e maestri. Così non è stato e, purtroppo, ne risente la credibilità del nostro insegnamento che appare agli occhi di tanti insensibile, incomprensibile e privo di misericordia». Al compimento dei 75 anni, l' arcivescovo brasiliano è stato subito messo in pensione. La congregazione per la Dottrina della Fede, contro la «manipolazione e strumentalizzazione» dell' articolo di Fisichella, ha chiarito che vi si «proponeva la dottrina della Chiesa, pur tenendo conto della situazione drammatica della bambina». Ma le polemiche dei «duri» non si sono placate. La cosa non ha avuto conseguenze. Nell' ultima riunione, una settimana fa, nessuno ha mai posto il tema delle dimissioni. Del resto, oltre alla presidenza e al consiglio direttivo, l' Accademia per la Vita è composta da 158 membri fra ordinari, onorari e corrispondenti: e la «fronda» è firmata da tre membri ordinari (su 56) e due corrispondenti (su 87). Il più noto è Michel Schooyans, cui Ratzinger scrisse l' introduzione a un libro nel ' 97. Ma in Vaticano c' è grande irritazione. La «lettera» dei cinque che chiedono ai «responsabili» (cioè Benedetto XVI e il cardinale Bertone, dai quali sono stati nominati) di far dimettere Fisichella è stata diffusa in Internet."
Fatte queste premesse, veniamo alla tua domanda specifica:"Che diritto ha una donna di negare la vita a un’altra creatura?"
A questa dobbiamo associare un’altra domanda non secondaria: “Che diritto hanno gli altri per costringere una donna a portare avanti una gravidanza non voluta?”
Vediamo, prima, cos’è un diritto. Da Wikipedia leggiamo che il significato più comune, in riferimento al nostro problema, è: “L'insieme ed il complesso (in genere sistematico) delle norme che regolano la vita dei membri della comunità di riferimento”. Per cui, senza una comunità di riferimento, il DIRITTO perderebbe significato.
Una delle concezioni più risalenti è la cosiddetta. teoria del diritto naturale, o giusnaturalismo. Tale teoria postula l’esistenza di una serie di princìpi eterni e immutabili, inscritti nella natura umana, cui si dà il nome di diritto naturale. Il diritto positivo (cioè il diritto effettivamente vigente) non sarebbe altro che la traduzione in norme di quei princìpi. Il metodo adottato dal legislatore è dunque un metodo deduttivo: da princìpi universali si ricavano (per deduzione) le norme particolari. Il problema è che non sempre vi è pieno accordo su quali siano i PRINCIPI UNIVERSALI ISPIRATORI DELLE NORME GIURIDICHE. Le Chiese, principali assertrici del diritto naturale, tendono ad identificarlo con i princìpi dettati dai loro testi sacri (la Bibbia, il Corano, etc.); gli studiosi laici con princìpi diversi (di giustizia, equità, il popolo, lo stato, o LA DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI DELLE NAZIONI UNITE.). Non essendoci accordo sui princìpi-base (a meno che essi non siano imposti da un potere autoritario), viene a cadere il fondamento stesso della teoria del diritto naturale. Ricordiamo, inoltre, che da pochi anni esistono delle TEORIE di etica evoluzionista (vedi il mio post sul BENE e sul MALE) che cercano di individuare dei VALORI ETICI ACQUISITI DALL'UOMO, tramite l'evoluzione, indipendentemente dalle religioni (probabilmente, così, si spiega il perchè quasi tutti i paesi civili moderni, come vedremo più avanti, ammettono l'aborto su richiesta della madre: a livello inconscio, se non condizionati dalle religioni, diamo più valore al benessere psicofisico della madre che non al nascituro).
Ma, ad esempio, anche nel caso del DIRITTO CANONICO CATTOLICO, mentre l’ABORTO comporta la SCOMUNICA AUTOMATICA, senza se e senza ma; nel caso della bambina brasiliana di 9 anni stuprata dal padre, la DOTTRINA che teoricamente dovrebbe essere di ISPIRAZIONE DIVINA, quindi PERFETTA, crea grossi problemi di interpretazione anche all’interno della comunità cattolica, e ai suoi più alti livelli.
Decisamente indicativa è la mappa delle legislazioni sull’aborto, che troviamo nel sito web (http://it.wikipedia.org/wiki/Legislazioni_sull%27aborto), in cui si evince che la quasi totalità dei paesi civili dell’emisfero NORD della terra e in SUD AFRICA (colorata in azzuro), l’ABORTO E’ LEGALE SU RICHIESTA DELLA MADRE; in INDIA, legale per stupro, protezione della vita della madre, salute fisica, salute mentale, fattori socioeconomici, e/o anomalie del feto; in MESSICO ed AUSTRALIA, legale per stupro, protezione della vita della madre, salute fisica, salute mentale, e/o anomalie del feto; in BRASILE Illegale con l'eccezione di stupro, protezione della vita della madre, salute fisica, e/o salute mentale; NEL RESTO DELL’AFRICA e nel resto del SUD AMERICA, Illegale con l'eccezione di salute fisica, protezione della vita della madre, e/o salute mentale; in CILE e in pochissimi altri stati di minore importanza, Illegale senza eccezioni.
In conclusione, la risposta alla tua domanda dipende dalla volontà delle singole donne (dalla loro cultura, visione di vita, religione, morale, etc.); mentre la risposta alla domanda parallela (“Che diritto hanno gli altri per costringere una donna a portare avanti una gravidanza non voluta?”) dipende SOLO dalle LEGISLAZIONI VIGENTI NEI RISPETTIVI STATI, che possono essere però aggirate, andando ad abortire all’estero, e poi ritornare nello stato di partenza. Personalmente, come donna, difficilmente deciderei di abortire, ma non mi sento di giudicare i singoli casi delle altre donne.
Una cosa, però, ritengo essenziale; ed è che le donne devono essere pienamente informate su tutte le possibili conseguenze civili e psicofisiche che un aborto o un mancato aborto comporta, in modo da decidere liberamente.
Un caro saluto,
Alessandra


Cara Francesca,
hai scritto una lettera intensa su una tematica delicata che suscita forti emozioni. Hai dato voce, pensiero e sentimenti a chi deve venire alla luce, e hai immaginato sia la capacità di un nascituro di sentire empaticamente quello che prova la mamma (la tristezza invece della gioia) sia la speranza salda di nascere fino all’ultimo.
Desidero riportare qui di seguito le posizioni più importanti sull’aborto che sono state efficacemente riassunte da Maurizio Mori nel libro “Aborto e morale. Capire un nuovo diritto” (Einaudi 2008).
“Fino a pochi anni fa, i dibattiti circa l'eventuale liceità dell'aborto riguardavano soprattutto le fasi avanzate o finali della gravidanza. Oggi invece la controversia investe soprattutto il primo trimestre, periodo in cui avviene la stragrande maggioranza degli aborti, circa il 90 per cento dei casi. D'ora in avanti, quando parlerò di aborto presupporrò sempre questo primo periodo.
Le principali posizioni in campo sono le seguenti:
La posizione cattolica: Afferma con vigore la «condanna morale di qualsiasi aborto procurato» (Donum Vitae 1987, I, 1), atto che non è mai ammesso: né quando necessario per salvare la vita della donna, né quando la gravidanza è conseguente a violenza carnale, né quando il feto ha gravi malformazioni. Anche se molti teologi cattolici sostengono che l'embrione è persona dal concepimento (tanto da far credere che questa sia la posizione ufficiale), il magistero ecclesiastico non afferma affatto che il feto è persona. Anzi, esplicitamente dichiara di astenersi dal prendere posizione in materia, sostenendo solamente che l'embrione va comunque trattato come una persona. Inoltre, questa posizione
(A questo riguardo, ad esempio, il Catechismo della Chiesa Cattolica (1997) afferma che l'embrione «deve essere trattato come una persona» (n. 2274, il corsivo è mio) oppure che «dal primo istante della sua esistenza l'essere umano deve vedersi riconosciuti i diritti della persona» (n. 2270, il corsivo è mio), ma mai che l'embrione è persona).
La posizione del Movimento perla Vita: Come quella cattolica si oppone all'aborto, da cui si distingue per i seguenti aspetti: 1) afferma esplicitamente che l'embrione è persona dal concepimento e che l'aborto è un vero e proprio omicidio; 2) lascia libertà di opinione circa la liceità morale della contraccezione, perché altro è «prevenire la formazione di una vita» e altro è «distruggere una vita già esistente»; 3) è propensa ad ammettere qualche eccezione al divieto generale di aborto, per esempio ove fosse necessario per salvare la vita della donna (pur sottolineando che il problema delle eccezioni è oggi poco rilevante, perché limitato a pochissime situazioni da vagliare caso per caso).

La posizione per la legalizzazione dell'aborto: Ammette l'aborto, osservando che esso già di per sé costituisce una scelta tragica per la donna, e che la società non deve infierire ulteriormente con divieti giuridici che rendono la situazione ancora piú difficile spingendo la donna all'aborto clandestino. L'aborto deve essere regolato socialmente perché non è un mero «problema privato» che può essere lasciato alla discrezionalità della donna, ma va consentito entro le forme istituzionali di controllo. Queste, tuttavia, di solito, oggi ammettono l'aborto anche per motivi psicologici ed economici, per cui - pur restando il principio del «controllo sociale» in materia - in pratica l'aborto è (quasi) sempre consentito a discrezione della donna.
La posizione per la liberalizzazione dell'aborto: Afferma che l'aborto è un mero «problema privato» della donna, e come tale deve essere risolto nella riservatezza del rapporto medico-paziente: la legge deve limitarsi a garantire solo la correttezza dell'intervento medico, e la donna può pretendere l'aborto a semplice richiesta. La donna ha il controllo della propria fertilità e diventa sovrana di quanto accade nel proprio corpo anche circa la generazione. In questo senso la posizione è specularmente opposta a quella cattolica.
Tra, queste posizioni ci sono significative differenze, ma lo spartiacque in materia è tra chi consente in qualche modo l'aborto e chi lo vieta con decisione. Poiché per appoggiare il divieto sembra che oggi si debba sostenere che l'aborto è un vero e proprio omicidio, la posizione del Movimento per la Vita ha un ruolo decisamente dominante nel dibattito contemporaneo, tanto che le differenze con la posizione cattolica sembrano essere di poco conto e passano in secondo piano. Infatti, l'intera controversia sembra dipendere dalla questione se l'embrione sia o no persona. L'antiabortista è cosí sicuro della risposta affermativa da proporre l'argomento dell'omicidio che porta a impostare il problema nel modo seguente: se l'embrione è persona, allora l'aborto è sempre (moralmente) illecito in quanto omicidio, e se invece non è persona, allora è sempre lecito. Specularmente opposto a quest'argomento è l'appello al diritto alla vita dell'embrione, da cui deriva il correlativo divieto di uccidere l'embrione stesso. Questa tesi è a volte formulata in modo conciso nella domanda: «l'embrione è cosa o persona?», dove è sottinteso che la risposta corretta è la seconda. (Poiché in questo libro considero il problema della moralità dell'aborto solo nei primi tre mesi di gravidanza, uso i termini « embrione» e «feto» come sinonimi, anche se dal punto di vista tecnico si chiama «embrione» il prodotto del concepimento fino all'ottava settimana - due mesi -, dopo di che diventa «feto».)
Di fronte a un'accusa cosí forte come quella dell'antiabortista, alcuni sono disposti ad ammettere che l'aborto sia davvero un omicidio, atto che riconoscono essere moralmente riprovevole, ma - osservano - che può essere giuridicamente permesso ove attuato entro i limiti di legge. Infatti, secondo la dottrina giuspositivista, il diritto può ammettere qualunque contenuto morale e quindi, almeno dal punto di vista tecnico-giuridico, non ci sono ostacoli a tale soluzione. L'antiabortista critica subito questa posizione sottolineando come essa violi il principio di eguaglianza tra le persone e apra la strada a ingiuste discriminazioni. Se si ammette che l'aborto è davvero un omicidio, allora questa critica sembra essere sostanzialmente valida.
Di solito, tuttavia, chi è favorevole a una legislazione permissiva semplicemente evita di considerare la questione della natura del feto, spesso osservando che l'etica è un lusso eccessivo in questo campo. Sottolinea invece che: 1) la donna è già in grave difficoltà e la sua situazione non deve essere ulteriormente aggravata da ostacoli giuridici; 2) la legislazione permissiva non intende avallare la moralità dell'aborto, ma semplicemente evitare l'aborto clandestino che alimenta l'illegalità e spesso mette in pericolo la vita delle donne; 3) il divieto obbliga tutti ad astenersi dal comportamento indicato, mentre il permesso non impone l'azione, ma semplicemente la consente a chi vuole compierla, e questa asimmetria è garanzia di libertà per tutti”.

Un caro saluto,
Alberto

lunedì 1 marzo 2010

Eventi positivi e negativi


Perché proprio a me? Nella vita accadono alcuni eventi positivi e altri negativi. Spesso pensiamo che le cose belle accadano agli altri e quelle brutte a noi. Come avviene questa scelta?
Margherita


Cara Margherita,
Freud, prendendo spunto dall’idea di Darwin che l’uomo primitivo aveva una organizzazione sociale (anche se primitiva) la chiamò “Orda Primordiale”.
Freud tracciò la sua idea sulla vita dell’uomo primitivo. Stando all’epoca dell’uomo cacciatore, il capo branco, con al suo seguito i maschi più forti e abili, partiva per la caccia che poteva occupare periodi anche lunghi.
In questo tempo lasciava, come simbolo della sua legge-potere:
- un totem del clan – che appartiene a tutto il gruppo e si trasmette ereditariamente;
- un totem del sesso – riferito a tutti i maschi ed anche alle femmine come proibizione ai membri del “clan” di sposarsi tra loro
- un totem soggettivo – riferito a quanto il clan si aspetta dai componenti.
Al ritorno dalla caccia, il Capo esercitava il proprio diritto di possedere tutte le femmine e di punire chi avesse tentato di prendere il suo posto: di accoppiarsi con qualche femmina.
Questa azione non aveva nulla di “affettuoso” proprio in quanto il Capo era trascinato dalla sua “spinta libidica” dal piacere cha ha una giustificazione prevalentemente biologica (libido genitale).
La situazione di “sopruso” che poteva anche arrivare alla “castrazione” del giovane troppo attivo, portava ad una “ribellione” che, mettendo alla prova il potere del vecchio, finiva spesso con l’omicidio, l’uccisione cioè del Capo-branco ed anche del “pasto rituale” per appropriarsi delle sue qualità, capacità, potenzialità.
Freud vide in questo paradigma la nascita del “senso di colpa”, legato quindi al “parricidio e alla ribellione alle leggi aggressive e castranti del padre.
Questa situazione sociale, poi cambia, all’incirca 35.000 anni fa con la nascita dell’agricoltura e dell’evoluzione dall’uomo sapiens in uomo sapiens sapiens, attraverso la nascita degli affetti e dei sentimenti specificatamente familiari, in cui anche la madre diventa punto di riferimento.
Il concetto archetipo del padre-padrone, che poi l’uomo identifica con Dio, che ti premia o ti punisce a seconda del tuo comportamento, rimane per decine di millenni, fino ad arrivare a 5500 anni fa con la religione dei Sumeri, che hanno inventato la scrittura.
Se si legge il mio POST: http://apiuvoci2.blogspot.com/2009/10/1.html
si vede che già i Sumeri credevano che gli dei mandavano i terremoti per punire gli uomini; ovvero lo stesso concetto primordiale che gli dei (o più recentemente Dio) ti premiano o ti puniscono a secondo del tuo comportamento.
Ancor in modo più esplicito, la formulazione di questo concetto è stata tracciata già su un papiro, 2200 anni prima di Cristo, in occasione della caduta dell’Impero Egizio.
(vedi: http://www.psicoanalisi.it/psicoanalisi/osservatorio/articoli/osserva16.htm)
“Questo testo, che senza ombra di dubbio costituisce uno dei primi scritti della Storia, racconta l’angoscia di una persona colta e socialmente importante, forse uno scriba, che viene assalita da “un attacco di panico” di fronte al disgregarsi della forza vitale che aveva finora caratterizzato il proprio impero e, di riflesso, la propria esistenza. Da questa presa di coscienza, scaturisce una profonda reazione depressiva, da cui cerca di fuoriuscire interrogando la propria anima, nel tentativo di trovare in essa il motivo sufficiente per continuare a vivere. L’anima si impegna a fondo nel fornirgli valide e copiose risposte che possano indurre l’io sofferente a non abbandonare la vita, ma egli non si lascia convincere e, in preda alla più devastante disperazione, si uccide lanciandosi nelle fiamme.”
Dovranno passare ben 1600 anni, per far si che la mente umana elaborasse gradatamente nuove sinapsi. Ritroviamo, infatti, un episodio similare nel 600 a.c con il Libro di Giobbe, ambientato in Mesopotamia. Questo celeberrimo testo biblico costituisce il fondamento del superamento della domanda primordiale.
Nella versione originale, questa volta, Giobbe, alla fine, riesce a confrontarsi con Dio, che si rivela direttamente nella Sua vera natura. E”questa percezione non mediata del REALE che ingenera la nascita di nuovi concetti e di nuove sinapsi.
“Durante la visione del Principio Creatore, Giobbe sospende ogni giudizio, dato che comprende che le Leggi del Creato esistono indipendentemente da ogni desiderio umano: anche se per motivi assolutamente incomprensibili all’uomo, il Principio Vitale ingenera il sole, gli astri, gli oceani, insieme ai mostri Behemot e Leviatan. che sono emanazioni indissociabili della stessa Legge. Lo stesso Contenitore abbraccia aspetti diversi e contrapposti, senza contraddizione alcuna. Giobbe si rende conto che non è più possibile scindere il Creato nei suoi aspetti buoni e cattivi, che non esiste in Dio una volontà diretta volta alla protezione dell’Uomo e che le Sue Leggi non possono essere commisurate alla volontà umana.
Scrive G.Ravasi”...In questo mirabile discorso si celebra una vera e propria rivoluzione copernicana nella cultura dell'antico Oriente: l'uomo non è più al centro del creato, come insegnava la sapienza tradizionale, ma ne è solo una microscopica componente che non riesce a rendere conto dell'insieme del cosmo.
L' universo appare incomprensibile e ignoto nell' infinitamente grande (le strutture planetarie) e nell' infinitamente piccolo (il parto delle camosce). Eppure, l'Essere ha un progetto che tiene insieme armonicamente aspetti tanto disparati...(omissis)."

Purtroppo la presa di coscienza CHE NON ESISTE IN DIO UNA VOLONTA’ DIRETTA ALLA PROTEZIONE DELL’UOMO O ALLA SUA PUNIZIONE, acquisita già nel 600 a.C., è un qualcosa che spesso si dimentica e che le religioni travisano.
E anche il pensiero che tu dici, che sembra che le cose buone capitano agli altri e non a noi, discende da questi archetipi, in cui non ci spieghiamo il fatto che siamo FORSE PUNITI per colpe che non abbiamo fatto; mentre altri vengono premiati.
Un caro saluto,
Alessandra

Cara Margherita,
In psicologia quando i nostri pensieri sono disturbati da valutazioni sbagliate si parla di “distorsioni cognitive”. Che cosa sono le distorsioni cognitive? Sono una serie di pensieri che noi mettiamo in atto quando valutiamo qualche cosa o quando ci valutiamo. Purtroppo se tali pensieri svalutativi sono ricorrenti provocano un abbassamento dell’autostima. È importante allora prestare attenzione agli eventi, ai comportamenti, e anche alle valutazioni che facciamo di ciò che accade a noi e agli altri. Bisogna imparare a riconoscere i pensieri ripetuti con regolarità in certe occasioni per impedire che le valutazioni negative si trasformino in pensieri dannosi per il nostro umore e per le azioni che dobbiamo intraprendere. Credere che le cose positive accadano solo agli altri e quelle negative con maggiore frequenza a noi sottintende una valutazione sbagliata degli eventi che può ridurre anche il nostro senso di autoefficacia, ossia la consapevolezza che siamo in grado di portare a compimento quello che abbiamo intrapreso. Tali pensieri devono dunque essere riconosciuti e poi modificati. Ti elenco qualche distorsione cognitiva, così quando penserai a qualche situazione specifica potrai verificare se affiorano alla tua mente alcuni di questi modi di valutare: 1. INFERENZA ARBITRARIA: talvolta traiamo conclusioni frettolose sia su noi stessi (magari negative) sia sugli altri (magari positive), spesso in assenza di dati oppure disponendo persino di dati contrari. Prova a pensare in quale occasione ti è capitato di essere stata precipitosa e superficiale nella valutazione di un evento della tua vita, forse per stanchezza o per abitudine. Talvolta quindi attribuiamo agli altri più felicità di quanta realmente loro ne percepiscano; 2. ASTRAZIONE SELETTIVA: di tanto in tanto siamo portati a focalizzarci su un dettaglio negativo e non riusciamo a vedere altro. Se in un contesto astraiamo solo un episodio positivo e lo attribuiamo agli altri, non abbiamo una percezione corretta di ciò che accade. Viceversa se in una conversazione che ci riguarda mettiamo in luce solo un aspetto poco piacevole, siamo poi portati a dare una valutazione negativa di noi stessi e della conversazione; 3. SOVRAGENERALIZZAZIONE: sulla base di un caso singolo traiamo conclusioni generali (ieri hai preso un voto basso di matematica e pensi: “in matematica non riesco mai”; “sbaglio sempre”); 4. MAGNIFICAZIONE: sovrastimiamo gli eventi negativi; 5. MINIMIZZAZIONE: sottostimiamo gli eventi positivi (facciamo però il contrario quando eventi positivi e negativi accadono agli altri); 6. PERSONALIZZAZIONE: se una cosa va male attribuiamo la colpa sempre a noi stessi, e ci assumiamo la responsabilità solo per gli eventi negativi. Infatti se qualcosa va bene diciamo che siamo stati fortunati o che il compito era facile. 7. PENSIERO DICOTOMICO: ragioniamo in termini di " tutto o niente”, senza vedere le sfumature.
Nella vita accadono continuamente degli eventi: casi più o meno fortuiti. Quello che proviamo però dipende dalla nostra valutazione. Ci sono persone che in ogni contesto vedono costantemente aspetti negativi e altre che sanno concentrarsi maggiormente su quelli positivi.
Dopo aver prestato attenzioni alle considerazioni che facciamo delle circostanze in un cui agiamo, pensa anche che si possono migliorare le proprie abilità. L’affinamento delle capacità richiede tempo e lavoro. Ma il perfezionamento di qualche capacità ti farà sentire più adeguata e ti aiuterà ad avere una valutazione migliore di te. Senti cosa scriveva l’imperatore Marc’Aurelio (121-180 d.C.) nei Ricordi (Einaudi 2006): “Gli uomini non ammireranno l'acutezza del tuo ingegno? E sia pure! Ma esistono molte altre cose delle quali non puoi dire: — Non sono tagliato per questo —. Sforzati quindi d'esercitare quelle che dipendono completamente da te: la sincerità, la dignità, la resistenza alle fatiche, la rinuncia ai piaceri, l'esser pago della propria sorte, la sobrietà, la dolcezza, la libertà, la semplicità, il disdegno del lusso, la grandezza d'animo. Non conosci quante cose esistono che puoi fare senza addurre alcun motivo di non esserne idoneo per natura”.
Un caro saluto,
Alberto