domenica 21 marzo 2010

La solitudine



I primi pensieri che ci vengono in mente associati alla solitudine sono pensieri negativi, di tristezza, di malinconia. Secondo me la solitudine è sempre dentro di noi, noi ci sentiamo sempre soli, a volte di più altre di meno, e non riusciamo mai ed eliminarla del tutto. Perché? Anche quando siamo accerchiati da persone che ci vogliono bene ci sentiamo soli e sentiamo ancora la mancanza di qualcosa. Ci sentiamo soli dopo la perdita di un caro, la rottura di un'amicizia, di un amore, quando non troviamo più vicino a noi l'affetto di una persona che prima ci era vicina e ci donava il suo aiuto quando ne avevamo più bisogno. A volte però siamo proprio noi che cerchiamo la solitudine, lo stare da soli, quando abbiamo il desiderio di riflettere, di pensare a noi stessi, ai nostri comportamenti e ci facciamo delle domande su ciò che ci sta accadendo nella vita; quando siamo soli riusciamo a pensare senza essere condizionati dai pensieri di altri. Perché vediamo la solitudine come cosa negativa ma la cerchiamo? A volte da soli si sta meglio, riusciamo ad essere felici, a trovare ciò di cui abbiamo veramente bisogno. Altre volte però sentiamo il bisogno di avere qualcuno a fianco, qualcuno che sappia ascoltare i nostri pensieri, che ci capisca. Il nostro essere quindi vuole rimanere da solo, ma sente il bisogno degli altri; cerchiamo la solitudine, ma poi non la vogliamo. Perché?
Elena


Cara Elena,
Avevo concluso il mio POST sul MALE e sul BENE (vedi: http://apiuvoci2.blogspot.com/2010/01/il-bene-e-il-male-rev-1.html), con la sintesi di un LIBRO “Solitudine. L'essere umano e il bisogno dell'altro” di Cacioppo John T., Patrick William:

“Essere soli è diverso dallo stare da soli o dal sentirsi soli. Il dolore cronico della solitudine è una ferita lacerante che può alterare il nostro equilibrio fisiologico. È un giogo che trasforma il bisogno insoddisfatto dell'altro in sensazioni, pensieri e comportamenti ostili. La solitudine non è una sensazione ineffabile, è qualcosa di ben radicato nella nostra biologia, che coinvolge il corpo in maniera totale, dalla circolazione del sangue alla trasmissione degli impulsi nervosi. Le immagini del cervello ottenute con le nuove tecniche di neurovisualizzazione mostrano che le sensazioni di emarginazione sociale e il dolore fisico condividono lo stesso meccanismo fisiologico. Ma per comprendere perché la solitudine ci fa soffrire bisogna scoprire il passaggio evolutivo dal gene egoista all'essere sociale. Perché Homo sapiens si è evoluto come specie superiore? John T. Cacioppo trova la soluzione nel "terzo adattamento": i fattori decisivi del successo riproduttivo dell'uomo si fondano sull'empatia, sulla cooperazione e sui legami sociali. Privarsi dello scambio con gli altri provoca uno strappo nel tessuto genetico che si espande nel nostro essere fino a pervadere le emozioni. In Solitudine, neuroscienze, genetica e psicologia evoluzionistica convergono, proponendo al lettore le acquisizioni più avanzate della ricerca per la diagnosi e la cura di una delle più diffuse malattie del nostro tempo. Dopo aver letto questo libro nessuno vorrà essere solo. E non lo sarà.”

In questo POST, aggiungo un articolo MOLTO ESPLICATIVO DEL PROBLEMA DELLA SOLITUDINE de “Il Sole-24 Ore” dedicato allo stesso libro:

Un'affollata solitudine.

“Se il direttore di uno zoo dovesse realizzare un recinto appropriato per la specie Homo sapiens , al primo posto nell'elenco dei punti importanti metterebbe «Animale necessariamente gregario», nel senso che non si può far vivere un membro della famiglia umana in isolamento, non più di quanto si possa far vivere un membro di Aptenodytes forsteri , il pinguino imperatore, in un deserto di sabbia. Sarebbe privo di senso inserire una creatura in un ambiente che forza fino a quel punto il suo guinzaglio genetico. Ciò malgrado,per circa cinque secoli –e a un ritmo molto più sostenuto negli ultimi cinquant'anni – le società occidentali hanno fatto retrocedere il gregarismo umano da una necessità a un fattore accessorio. Di fatto, i dati più recenti indicano che il numero delle persone che accettano una vita in cui sono fisicamente, e forse emotivamente, isolate
dagli altri è in crescita. Consideriamo i seguenti dati:
a) in uno studio delle scienze sociali del 2004, la percentuale dei soggetti che dichiaravano di non avere nessuno con cui discutere questioni importanti era triplicata rispetto a quella rilevata in uno studio del 1985;
b) nell'ultima ventina d'anni, negli Stati Uniti la dimensione media delle famiglie è diminuita all'incirca del 10%, raggiungendo il valore di 2,5 persone;
c) nel 1990, tra le famiglie con figli minorenni più di una su cinque comprendeva un sologenitore. Attualmente, le famiglie con un solo genitore sono quasi una su tre;
d) nel 2000 negli Stati Uniti le persone che vivevano completamente da sole, per il 36% ultrasessantacinquenni, erano più di 27 milioni. Secondo le proiezioni dell'U.S. Census Bureau, nel 2010 saranno 29 milioni –con un aumento di più del 30%dal 1980 –e in una percentuale enorme saranno ultrasessantacinquenni.
Poiché la struttura delle carriere, delle abitazioni e della mortalità e le olitiche sociali sono guidate dal capitalismo globale, gran parte del mondo sembra determinata ad adottare uno stile di vita che aggraverà e rafforzerà la sensazione cronica di isolamento che milioni di persone provano già, anche quando sono circondate da familiari e amici ben intenzionati. La contraddizione è che abbiamo modificato radicalmente l'ambiente, ma la nostra fisiologia è rimasta invariata. Per quanto ricche e tecnologicamente avanzate siano diventate le nostre società, sotto sotto siamo le stesse creature vulnerabili che si stringevano le une alle altre terrorizzate dai temporali 60mila anni or sono.

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Come ogni altra caratteristica, la propensione genetica a desiderare le relazioni sociali e la tendenza a provare dolore sociale in situazioni di isolamento si trasmettono grazie alle informazioni genetiche contenute nelle nostre cellule, codificate come istruzioni per produrre proteine. L'espressione di questi geni dipende dalle circostanze ambientali, tanto quelle reali quanto quelle meramente percepite. Alcune delle proteine assumono la forma di ormoni che trasportano messaggi nel sangue. Questi messaggi servono a integrare diversi sistemi organici e a coordinare le risposte comportamentali.
Uno di questi ormoni è l'epinefrina, che ci può inondare di quell'insieme di sensazioni che chiamiamo eccitazione. Un'altra piccola proteina –l'ormone ossitocina –favorisce l'allattamento, la calma rasserenante e l'intimità stretta. Altre proteine geneticamente orchestrate danno origine a neurotrasmettitori quali la serotonina, che può migliorare il nostro umore oppure gettarci nella disperazione, a seconda della sua concentrazione nel cervello. I geni forniscono le carote e i bastoni chimici che guidano il comportamento, ma dipendono dai sistemi sensoriali per poter interagire realmente con l'ambiente. I segnali che i sensi ricevono dall'ambiente provocano cambiamenti della concentrazione e del flusso di questi ormoni e neurotrasmettitori. Queste sostanze chimiche agiscono come segnali interni per stimolare comportamenti specifici – ed è qui che le istruzioni genetiche alla fine si manifestano come differenze individuali nei livelli di ansia, di giovialità o di sensibilità alle sensazioni di isolamento sociale.
Nel corso della storia, gli individui con tendenze comportamentali meno bene adattate all'ambiente non sono sopravvissuti, oppure sono sopravvissuti solo marginalmente, o non abbastanza a lungo da generare lo stesso numero di figli degli individui con un adattamento migliore.
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Tra gli esseri umani ancestrali, stringere legami con i membri del gruppo più ampio divenne la norma, ma per ragioni diverse a seconda del sesso. I legami offrivano alle femmine dei cacciatori-raccoglitori un vantaggio per la sopravvivenza: il gruppo significava sicurezza, ma anche poter condividere i doveri materni mentre ci si occupava di altre faccende necessarie. Anche tra i babbuini selvatici della savana africana, le differenze individuali nella capacità di formare relazioni intime con altre femmine hanno un effetto significativo sul tasso di sopravvivenza della prole (...). Tra i primi esseri umani di sesso maschi-le, gracili saprofagi armati solo di bastoni appuntiti, stringere legami per formare alleanze divenne la norma innanzitutto per i vantaggi politici che ne derivavano (peraltro il predominio politico offriva migliori opportunità di accoppiamento) e anche perché l'unione fa la forza. Ma il più grande vantaggio della connessione e della coordinazione sociale era forse la possibilità di ottenere grandi quantità di proteine concentrate (...).
Presumendo una variazione normale nel bisogno di relazioni sociali influenzato dai geni, si può immaginare che centomila anni or sono, poniamo, un maschio potesse avere un termostato sociale regolato su un livello tanto basso da potersi accaparrare il cibo senza provare vergogna, senso di colpa o dolore. Poteva andarsene a caccia per tre giorni, trovare il posto in cui giocavano le antilopi e non tornare mai indietro. Poteva ignorare l'assenza della sua famiglia,o l'idea che potessero morire di fame. Assuefatto alla solitudine come segnale di pericolo, cacciando per sfamare solo se stesso, forse si nutriva meglio dei maschi che riportavano cibo all'accampamento e contribuivano al bene di tutti.
Tuttavia, se i suoi figli non sopravvivevano abbastanza a lungo da maturare e riprodursi e nutrire i propri figli, non sopravvivevano nemmeno i suoi geni (anche qualora non fosse sopravvissuta la sua tribù, i suoi figli avrebbero avuto minori probabilità di sopravvivere).
I geni più vecchi e completamente egoisti continuarono a esistere, ma la loro influenza nella popolazione in generale si ridusse per il continuo calo riproduttivo. Il successo individuale ormai era guidato dalla capacità di trascendere l'egoismo e di agire nell'interesse di altri.Il gene egoista aveva dato origine a un cervello sociale e a un diverso tipo di animale sociale.”


Concludo, quindi, nel dire che il SOFFRIRE LA SOLITUDINE e IL CERCARE LA SOLITUDINE, è molto simile al prevalere del BENE e del MALE (ovvero dell'altruismo e dell'egoismo), che in questa fase evolutiva dell'umanità COESISTONO in ogni uomo, anche se in misura diversa, anche in funzione dell'emotività e dei sentimenti che variano nel tempo e nelle varie circostanze.

Un caro saluto,
Alessandra



Cara Elena,
Il filosofo Montaigne nei suoi Saggi racconta di aver conosciuto un decano di Saint-Hilaire di Poitiers ridotto a una grave forma di solitudine causata dai tormenti di una malattia che un tempo veniva chiamata “malinconia” e che oggi sarebbe probabilmente etichettata con il termine “depressione”. Racconta che quando entrò nella sua camera scoprì che: “erano ventidue anni che non aveva fatto un passo fuori”; […] “Appena una volta alla settimana permetteva che qualcuno entrasse a fargli visita; si teneva sempre chiuso in camera sua, solo, a parte un servo che gli portava da mangiare una volta al giorno, e non faceva che entrare e uscire. La sua occupazione era passeggiare e leggere qualche libro (poiché aveva qualche cognizione di lettere), ostinato quanto al resto a morire in tale condizione, come fece poco dopo” (Saggi, vol. I). Una solitudine estrema, probabilmente molto sofferta e che conduce anche alla morte: quella relazionale, prima; e quella fisica, dopo, come conseguenza. Ricordo che qualche tempo fa mi ha colpito un libro di Elie Wiesel dal titolo La danza della memoria [2008], in cui l’autore mette in relazione la solitudine con la follia. Ad un certo punto infatti parla di un uomo di nome Beinish che ha deciso di vivere da solo, forse in completa solitudine. Il protagonista del libro desidera incontrarlo e si interroga su tale opportunità. Si chiede che cosa avrebbe potuto offrirgli in un eventuale incontro quel personaggio così particolare, e pensa anche solo alla possibilità di ottenere la chiave interpretativa per comprendere quella solitudine. Poi riporta questa bella riflessione che mette in relazione solitudine, paura e follia. Scrive Wiesel: “La solitudine è una donna percossa che non ha più né la forza né la voglia di amare. La solitudine è un bambino affamato che sogna un pezzetto di pane ammuffito. La solitudine è il mendicante che non chiude occhio da giorni e notti, forse da quando è stato strappato al ventre di sua madre. Come la follia, la solitudine è la paura. Un uomo solo è un uomo che ha paura. Un uomo che vive nella paura è un uomo solo. Quando la solitudine entra in me, diventa me. La solitudine sorge all'improvviso quando solo il corpo mi appartiene, ma anche quando solo io appartengo al corpo. La solitudine trasforma la coscienza in prigione, una prigione dalla quale ho paura di uscire. Paura di non capire nulla, paura di capire tutto. Paura di amare e di non amare più. Paura di dimenticare tutto e paura di non dimenticare niente: i corpi dilaniati che si trascinano sui campi di battaglia, l'agonia lenta e implacabile dei superstiti. Paura di conoscere la fame, paura di non avere più sete di niente. Paura di morire e di vivere. Paura di avere paura. Paura di essere solo quando non c'è più nessuno. Paura di essere solo con la persona amata. C'è una paura che non è ancora morte, ma che non è più vita”.
Quando penso ad un filosofo che è vissuto solo e che ha fatto della solitudine la propria forza per esplorare l’interiorità dell’uomo, penso a Kierkegaard. Il filosofo danese ha fatto della solitudine un momento fondamentale per la scoperta dell’uomo come “singolo”, perché ha esplorato la persona nella sua unicità e irripetibilità. Kierkegaard racconta che cercava spesso la solitudine dei boschi in una grande foresta a nord-ovest di Copenaghen: “Nel Bosco di Grib c'è un posto che si chiama ‘Angolo degli Otto Sentieri’; lo trova solo chi lo cerca attentamente, poiché nessuna carta lo riporta”. […]“È come se il mondo si fosse estinto e l'unico sopravvissuto si trovasse nell'imbarazzo di non avere nessuno che possa dargli sepoltura; ovvero come se l'umanità intera avesse trasmigrato per quegli otto sentieri dimenticando uno dei suoi membri!”. Dice: “qui il silenzio e la bellezza regnano sempre” (Stadi sul cammino della vita, [1845] 2006). In questo bosco egli riusciva a trovare quel silenzio che sovente gli uomini cercano di notte. Un silenzio possibile dunque anche di giorno, nelle ore di luce e all’aperto. Il nome Otto Sentieri, però, è contraddittorio perché da quei luoghi non passava mai nessuno e dunque quei sentieri non erano altro che una “possibilità per il pensiero”. Scrive Kierkegaard: “Voi, Otto Sentieri, avete allontanato da me tutti gli uomini e non mi avete riportato che i miei pensieri”. Nella solitudine Kierkegaard indagava l’uomo e il suo rapporto con il divino: indagava le possibilità della fede e la relazione autentica con Dio. Kierkegaard dunque sfruttava la solitudine, nonostante la sofferenza che questa procura, per ascoltare la propria voce interiore e ottenere il massimo rendimento nell’elaborazione dei propri pensieri e nella stesura delle proprie opere.
Pascal era convinto che gli uomini avessero timore della solitudine e che cercassero ogni forma di svago per non sentire la condizione della propria esistenza. Scrive Pascal nei Pensieri (1669-1670): “Il re è circondato da persone che non pensano che a divertire il re, e a impedirgli di pensare a se stesso. Infatti diventa infelice, per quanto sia re, se vi pensa”. Gli uomini dunque si gettano nel fracasso, nel trambusto, tanto che, dice il filosofo, per molti uomini il piacere della solitudine è “un piacere incomprensibile”. Gli uomini infatti preferiscono essere occupati e amano meno riflettere sulla propria condizione; infatti cercano qualcosa “che li distragga dal pensare a se stessi”. La solitudine invece non deve essere fuggita, ma deve essere accolta come un momento importante per la maturità dell’individuo, come un’occasione per guardare in faccia la condizione umana. Scrive Pascal: “Noi siamo ridicoli a cercare riposo nella società dei nostri simili: miserabili come noi, impotenti come noi, non ci aiuteranno; si morirà soli”. Si nasce soli e si muore soli, nessuno si può sostituire a noi e per quanto abbiamo riflettuto o per quanti amici e persone care abbiamo attorno a noi ci sono momenti in cui siamo soli a compiere delle scelte.

La solitudine se non è scelta è una pena e procura sofferenze. Anche se l’uomo avesse tutta la natura al proprio comando e fosse in grado di ottenere tutto ciò che desidera nella vita, sarebbe sempre infelice se non potesse condividere con altri le proprie gioie. Il filosofo scozzese David Hume spiega efficacemente questa idea. Scrive Hume: “Una solitudine totale è forse il peggior castigo che ci si possa infliggere. Qualsiasi piacere languisce se non è goduto in compagnia, e qualsiasi dolore diventa più crudele e intollerabile. Qualunque sia la passione che ci muove, orgoglio, ambizione, avarizia, brama di sapere, desiderio di vendetta o concupiscenza, di tutte la simpatia è l'anima o il principio animatore; ed essa non avrebbe alcuna forza se facessimo completamente astrazione dai pensieri e dai sentimenti altrui. Se anche tutte le forze e gli elementi della natura pattuissero di servire un solo uomo e di obbedirgli; se anche il sole sorgesse e tramontasse al suo comando; se anche il mare e i fiumi scorressero a suo piacimento, e la terra producesse spontaneamente tutto quanto gli fosse utile o gradito, egli sarebbe pur sempre un infelice finché non gli si desse almeno un'altra persona con cui poter condividere la propria felicità e di cui godere la stima e l'amicizia” (David Hume, Trattato sulla natura umana, II, Sulle passioni, [1739-1740] Laterza 2008).

La solitudine è però l’occasione, come diceva il filosofo e teologo Martin Buber, affinché l’uomo si ponga “il problema dell’uomo”. L’uomo che si perde nella massa cerca di rimuovere l’angoscia, depotenziare la paura della propria condizione esistenziale; cerca infatti di eliminare l’inquietudine, allontanando l’incontro con se stesso che forse lo spaventa. Ma rimuovere la solitudine non è possibile, perché la solitudine è una condizione importante della vita. Se l’uomo allenta il proprio contatto con il mondo, entra in crisi, si mette in discussione, ascolta la propria fragilità e si sente vulnerabile. La solitudine rappresenta anche il momento che rende possibile l’apertura alla trascendenza e alla relazione con Dio. Scrive Martin Buber (1878-1965) nel Principio dialogico e altri saggi ([1984] 1997): “Ma non è un portale anche la solitudine? Non sorge a tratti, nel più silenzioso isolamento, un vedere inaspettato? La frequentazione del proprio io non può misteriosamente trasformarsi in una frequentazione con il mistero?”
La solitudine questa volta è intesa come momento di ricovero, di rifugio essenziale affinché i legami con l’altro (e con l’Assoluto nella riflessione di Buber) non si cristallizzino. Nella solitudine si recupera un senso più autentico anche nelle relazioni tra gli uomini e, forse, come intendeva Buber, la solitudine è un momento dell’alternarsi del rapporto con la vita: “una sistole e una diastole dell’anima”. Allora la solitudine si attraversa e nella solitudine si ritorna, perché la nostra vita, che si rinnova continuamente, è possibile grazie a un’oscillazione costante tra solitudine e vita attiva.
Un caro saluto,
Alberto

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